top of page

Paolo Gera, Profonda per il poeta

James Hillman ne “Il codice dell’anima” riferisce attraverso sue parole il mito di Er, raccontato da Platone nel libro X di “Repubblica”: “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie una immagine o un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un dàimon, che è unico e tipico nostro.” (p.23). Più di ogni altra persona, che spesso inabissa il proprio dàimon nelle attività quotidiane più disparate e non è conscia del suo richiamo, è il poeta che tende a vivere nella ri-conoscenza del (al) proprio dàimon: cresimato ai tempi del Preromanticismo, il poeta riconosce la sua vocazione, la sua diversità, la sua collocazione nel mondo come destino singolare e non avocabile. “Odi un poeta giovane,/che il genio che l’ispira/devoto siegue, e libero/percote ardita lira” (Ugo Foscolo, La campagna vv. 7-10).

Il problema di seguire le linee guida del proprio carattere alimenta in età moderna accese discussioni: in letteratura si accentua il senso di predestinazione e di divisione dal resto della società borghese: il poeta è “l’étranger”, come scriveva Charles Baudelaire; nel socialismo utopico di Fourier le passioni originarie di ognuno, spesso non riconosciute dai ruoli sociali, devono liberarsi e collocarsi in un nuovo Ordine che invece le valorizzi. Sul dàimon non riconosciuto e sui problemi che la sua mancata agnizione comporta ha scritto riflessioni importanti James Hillman nel già citato “Il codice dell’anima”. Oggi pare che l’evoluzione tecnologica sia una macchina della verità formidabile, visto quanti individui pensano di riconoscere, attraverso le applicazioni del computer e le occasioni della rete, una predisposizione originaria che andrebbe forse controllata con più rigore e più sincerità. La tecnologia dell’informazione aiuta a identificare con più facilità il disegno platonico o produce in quantità industriale daimon fittizi?

Il poeta dunque riconosce il suo daimon, sa che è poeta e che lo rimarrà tutta la vita. In corrispondenza a questo elabora un modello di linguaggio e comunicazione che dovrebbero rivelare al mondo la sua particolare predisposizione di ‘ascolto del profondo’, quella e non un’altra. Ma la riconoscibilità del daimon prevede un blocco o piuttosto uno scorrimento liquido, un superamento continuo della propria posizione iniziale, uno spostamento sempre nuovo dell’avamposto? I versi famosi di Hölderlin tratti da “Sokrates und Alkibiades”: “Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste”, “chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”, si possono riferire al percorso di una poesia che deve dotare la sua analisi, il suo scavo, di un linguaggio sempre nuovo e sperimentale? Ma il poeta non è solo nella sua alienità, il suo gesto replica i gesti di chi è venuto prima di lui, il riconoscere il suo daimon è spesso il riconoscerlo in altri poeti che prima di lui lo hanno identificato e formulato attraverso forme e stilemi caratterizzanti. La dialettica tra riconoscimento della propria voce, la sua cristallizzazione comunicativa, e costruzione progettuale di una nuova vocalità, deve tenere conto dunque anche della coralità delle esperienze della società dei poeti, della tradizione a cui affidarsi, per arrivare poi all’emancipazione da questa. Zanzotto nel 1962 a proposito dell’esperienza dei “Novissimi” scriveva di una “attuale ipotesi di reversibilità tra esperimento e convenzione (…); senza questa coscienza diviene impossibile salvare quel tanto di autenticità che v’è nella convenzione stessa e cogliere gli eventuali indizi di un suo superamento, si rende impossibile, salvare, attraverso tanto legittimo disamore, qualche cosa che alluda, almeno, all’amore, ne isoli l’immagine per assurdo.”

Nel wrestling il termine gimmick indica un personaggio cui viene assegnato un comportamento o delle caratteristiche utili a suscitare un maggior interesse del pubblico Può trattarsi di un modo particolare di atteggiarsi, di slogan, di costumi e di maschere: si prova a costruire una mitologia personale fittizia attraverso pochi caratteri ben definiti ed è questa tipo di comunicazione primitiva che porta alla messa in scena dell’idolatria. Nell’agone della poesia, se il daimon si trasforma in gimmick, la riproduzione di moduli e timbri che identificano il poeta e che magari lo ha fatto conoscere presso un vasto pubblico, può rischiare di trasformarlo in una sua versione stereotipata? Montale come Eugene The Wall, Sanguineti come The Undertaker. Dove finisce l’ascolto della propria predisposizione e la volontà di proseguire la spinta originaria in una ricerca sempre nuova e dove inizia la fissità, la maniera? Il daimon può avere in sé una natura proteica, di pulsione continua alla ricerca, senza che il suo riconoscimento possa esserne oscurato?

Nei cruciverba la soluzione della definizione “profonda per la poesia” è una parola di tre lettere: “ima”. È una parola obsoleta, arcaicizzante, che può però, come ogni parola, essere usata dal poeta in un determinato contesto progettuale. Zanzotto stesso la utilizza nell’Ecloga I: “Significati allungano le dita,/ sensi le antenne filiformi./ Sillabe labbra clausole/unisono con l’ima terra. Perfettissimo pianto, perfettissimo” (vv.10-14).

L’aggancio con l’enigmistica proietta sulla poesia l’ombra di un’altra fondamentale dimensione che è quella del gioco e il gioco ripropone ancora una volta la dialettica mai finita fra l’attenersi alle regole e lo spazio libero della creatività. Nelle sue “Ricerche filosofiche” Ludwig Wittgenstein riflette sul fatto che i nomi non hanno un valore astratto, assoluto, ma che è la pratica quotidiana, il loro uso nei diversi contesti umani, a determinarne senso e funzione. “Qui la parola “gioco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita”. (p.17). Subito dopo Wittgenstein esemplifica una serie di giochi linguistici: comandare e agire secondo il comando, riferire un avvenimento, elaborare un’ipotesi e metterla alla prova, cantare in girotondo, sciogliere indovinelli etc. E la poesia, che tipo di gioco linguistico è? Voglio pensare che il gioco che stiamo facendo ora abbia costituzionalmente una valenza innegabile di pluralità e libertà, dunque un’aspirazione insieme democratica e anarchica. A mio parere la poesia è il gioco linguistico in cui, rispetto alle restrizioni di ogni altro ambito comunicativo, tutti i nomi sono ammessi e assumono significato nella libera associazione dei significanti. La Divina Commedia è un gioco linguistico lungo 101.698 parole.

A proposito di tutto questo, guarda caso, ho scritto una poesia:

la poesia è una riunione di parole

tutte sono ammesse e hanno uguale importanza

tutte marciano insieme e prendono voce l’una dall’altra

non c’è divieto che le disperda

non c’è carica della polizia che le sciolga

non c’è virus che le chiuda in casa

non c’è paura che le separi

possono stare insieme tutto il tempo che vogliono

anche per centounomilaseicentonovantotto passi

possono dire quello che pensano

soprattutto in direzione contraria

servono a sconfiggere panico e dittatura

quando panico è l’altro nome di dittatura

e anche queste – come vedete –

sono libere parole di questa poesia

Sarà daimon o sarà gimmick?

Paolo Gera


Post in evidenza
Post recenti
Archivio
Cerca per tag
Seguici
  • Facebook Basic Square
  • Twitter Basic Square
  • Google+ Basic Square
bottom of page