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Nicola Farina, Mensura temporis (racconto)

La finestra aperta cigolava sollecitata dal vento, fornendo alla stanza intermittenti getti di aria vergine.

Ora, lui si trovava supino, con le mani giunte dietro la nuca, a fare da scomodo cuscino a una testa riottosa. Era evidente che necessitava d’altro. Si alzò e, sfidando il freddo della piccola stanza, si ritrovò alla scrivania. Buttò giù poche righe, stralcio di un testamento morale ricco ancora di mille altre intenzioni.

Soddisfatto, si pulì dei brandelli della notte sciacquandosi il viso con due risacche d’acqua bollente.

Il rumore della città lo reclamava a una più operosa presenza.

Rifece il letto e indossò l’abito adatto.

Era pronto per le angosce diurne.

Se abbiamo uno scrittore è inoppugnabile che esista, insieme, un libro di carta o anche solo immaginato e promesso.

E poiché lui voleva riconoscersi tale, si adoperava a una catena di montaggio che stoccava fantasie in serie, confezioni di aforismi e altre diavolerie d’autore.

Ciò che concepiva finiva in una anonima scatola di colore nero, sudicio lascito di chi lo aveva preceduto nella povertà di quel solaio.

Un vulcano di idee gli si accendeva a intervalli, per poi tornare dormiente e lasciarlo con lo scotto di miseri lapilli.

Si trovava, così, imbastardito nelle vesti di cantore a singhiozzo con motti, massime e incipit mozzati.

O qualunque altra cosa la cui lunghezza non violasse un certo cabotaggio.

Una volta fuori dalla sua tana si diresse verso la casa di chi lo sopportava come portatore di mestizia.

Fu accolto con un abbraccio. Di quelli che censurano ogni incomprensione, sigillo di reciproca legittimazione.

Le iniezioni di fiducia che l’amico somministrava all’amico erano ricostituenti ma duravano fino a quando la porta non si richiudeva alle sue spalle e un sordo rumore lo portava di nuovo a dubitare di sé stesso.

Lui era capo reparto di una ditta artigiana di lancette. Si prendeva cura delle ore, a sua detta più sagge rispetto agli irrequieti secondi.

Era convinto, senza avere mai voluto darne conto, che si sprecasse tempo e materiale. Pensava che sarebbe bastato dimezzare la dimensione dei suoi artefatti e i guadagni sarebbero stati di gran lunga maggiori.

Con il corollario che ciò gli avrebbe permesso di finire il lavoro prima e, quindi, di potersi dedicare con maggior piglio alla sua impresa. La narrazione delle sue spirituali peripezie.

Vicende che avrebbe potuto immortalare con una buona epica, in concorrenza a eroi più picareschi. I proverbiali mulini a vento sarebbero stati rimpiazzati dall’andirivieni dei suoi slanci letterari.

Quel giorno lavorò di gran lena. Senza che se ne fosse reso conto, l’orologio a cucù crocifisse l’epilogo della sua giornata lavorativa.

Ripose nel cassetto il frutto copioso del suo cottimo e lasciò, puntuale come sempre, quel minuscolo laboratorio di così minuscola merce.

Mentre camminava a passo sostenuto, sospinto dalla voglia di scrivere, il batacchio di una vicina campana gliene percosse il fremito. Ogni colpo era una fitta che zittiva una già riluttante musa.

Raggiunse il suo rifugio nell’esatto momento in cui si rese conto che la scia di un promettente spunto era svanita. Così da fare in modo che la pagina bianca, in cui ora si specchiava, frustrasse la magia di un innesto creatore.

Rovistò nei quattro angoli della sua corta memoria. Ne concluse che l’intuizione che l’aveva trascinato a casa con tanta sollecitudine si era dispersa.

Perciò non fu in grado di far riemergere quella suggestione che l’aveva illuso di essere depositario di un’idea dai fianchi larghi e quindi propriamente feconda.

Amareggiato, trascrisse un enunciato così imperativo che, per ritegno, omise di munire di uno o più punti esclamativi. Come, invece, una certa vena enfatica gli avrebbe intimato.

In un rigo erano sottintese idee che facevano le veci di quella primogenita, la cui scomparsa continuava a scuoterlo.

Scivolò nel giusto sonno, intercapedine tra il balbettio dell’oggi e l’avventura promessa del domani.

Quell’oblio lo calmò anche se lui non ne potè avere contezza.

E un mistero era proprio l’appagamento che si rivelava in quella mancanza di coscienza. Ossia il paradosso di un bello invisibile e di un buono latente.

Ma che esistevano ognuno al di là della sua percezione.

Bastò un attimo a emulare l’intera notte e si trovò in piedi inorridito da un’alba ladra di pace e libertà.

Aprì la finestra e si tuffò così nella radiosa nemesi del suo mondo, fatto, invece, di buio e di letargo.

L’aria fredda lo scosse dalla rigidità del suo torpore. Mise in moto l’ingranaggio che inanellava tante piccole azioni quante ne bastavano per fargli scordare la perduta quiete.

Ablazioni, detersioni e strofinamenti gli rigenerarono membra e mente. E furono il definitivo colpo di spugna sul suo dormire.

Si agghindò e ciò che ne risultò era una sagoma dalla pelle bianca come neve, dipinta di occhi neri appena socchiusi e di una chioma altrettanto scura. Mentre naso e bocca, come assi cartesiani, individuavano il vezzo di un piccolo neo disegnato nella loro esatta origine.

Uscì di casa e recuperò l’inquietudine per quel pensiero abortito il giorno prima. Lo cercò in ciascuna goccia di pioggia che disturbava il suo cammino.

Avrebbe fatto, come ogni mattina, visita all’amico. Sperando che lo aiutasse a spremersi ed espellere il pus del suo mnemonico rebus.

Non ci fu nulla da fare. La tenace inquisizione del fedele compagno non fece altro che far ritrarre dalla lingua gli scampoli di un anemico ricordo.

Dimenticò la sua amnesia e si avviò al lavoro.

Attraversando la strettoia di un arcobaleno, la congiunzione tra la sua anima lirica e quella di pago artigiano si completò. Con il boato di un tuono a fare da gancio a quella cesura.

Le vertigini di una tromba d’aria spazzarono via l’errato convincimento che pioggia e vento avessero esaurito il loro compito.

Una volta alle porte della ditta, vide la grondaia improvvisare liquide stalattiti che avevano tutte uguale forma di proiettile. All’inizio tradivano una certa remora ad abbandonare il centimetro quadro che le tratteneva. Poi scoccavano inesorabili verso terra, a rimpinguare il fango che si trovava lì anche per far da calco alle sue zuppe scarpe da passeggio.

Dopo averle pulite come poteva, varcò l’ingresso.

Si trovava, ora, alle prese con un semilavorato che, come cera, assecondava il movimento dei suoi polpastrelli. La destrezza nasceva dall’esperienza che lo aveva reso un veterano in quella officina.

Quel lieve e promiscuo composto di atomi si compiva puntualmente, in virtù della sua arte amanuense, in uno dei gioielli che sembravano pensati esclusivamente per completare lo splendore della sua asticella.

L’ora era diventata per lui il metro di ogni cosa.

E se è possibile convenire che per fare un qualunque affare ci si possa impiegare una certa porzione d’ora e che la distanza tra due punti sia un tot di ore, un po’ più bizzarro è accettare della sua teoria che un paesaggio, un volto o una qualunque altra empirica manifestazione siano belli due, cinque o dieci ore. Come se l’ordine di grandezza del continuo divenire si potesse rivelare anche l’unità di misura dell’essere.

Il suo progetto di ridurre al minimo la dimensione della lancetta in modo da frenare lo spreco di materiale era, perciò, anche dettato dal far tendere fisicamente quel segnatempo all’indivisibile parte di sé stesso.

Nella convinzione che i sessanta minuti celebrassero l’istante più di quanto non facessero le loro frazioni e frazioni di frazioni.

Insomma, l’ora era per lui l’adesso. Il niente prima e il niente dopo. L’attimo da vivere doveva cessare di essere fuggente.

Avrebbe viceversa dovuto avere il tondo volume di un ventiquattresimo di giorno. Un tempo da prendere con calma, che liberassedall’affanno di qualunque fretta.

Questo era il tipo di congetture che affollavano la sede del suo visionario ingegno. E che segregavano l’orario del suo impiego tra due parentesi oltre le quali si smarriva.

Già da molto gli capitava, infatti, che la fine del turno lo spaesasse.

Col succedersi di settimane, mesi e anni, il solco esteriore di incipienti rughe aveva fatto il paio con l’atrofizzarsi di quella smania di divertimento di cui i suoi coetanei spontaneamente godevano.

Per esempio, non si concedeva più il canzonarsi tra compagni di gioco, davanti a birre fredde o calde cosce da soddisfare.

Invece, il torrente in piena di presunte ispirazioni era ciò che di magro restava delle sue rinunce e del suo malcontento.

Imboccò il vicolo che sfociava nella grande piazza. Stormi di uccelli componevano duttili forme, segno di una natura eclettica e loquace.

Fece l’intera strada verso casa. Dietro una quercia ritrovò quel suo bernoccolo di fantasia persa il giorno prima, ma illesa.

Questa volta la protesse con cura e, una volta fatte le scale di casa, la stese su carta per darle tregua.

Ora la osservava in tutta la sua evidenza e non riusciva a intendere come potesse essergli sfuggita.

Misurava la larghezza del foglio. L’inchiostro fresco gli dava lo spessore di cui faceva difetto.

La guardò da occidente a oriente.

La sfrondò di qualche arzigogolo e poi si sedette a scovare il senso di quel motto.

Lo lesse più volte. Ciascun ripasso lo guarniva di una venatura diversa e il messaggio si celava tra una ridda di significati.

Piegò in otto parti il foglio, riparo di quella scorbutica epifania, e lo posò sul bordo della scatola nera.

Poi, soddisfatto, fece ruzzolare il fazzoletto di carta tra le fauci di quel cubo fatto di vecchio cartone.

Ora aveva fame e volle cimentarsi.

Schierò l’esercito di ingredienti che, di lì a poco, si sarebbero immolati a uno a uno.

Il campo di battaglia era una pastella grumosa che bolliva in pentola, sopra il tenue fuoco di un camino malridotto.

Si avvicinò pregustando il suo ancora insipido scopo.

Comparve così nella sua testa il fantasma di una familiare figura femminile, evocata come solo i mistici attributi dell’olfatto sanno fare.

Consumò la cena provando a ignorarne l’apparizione.

Infine, stramazzò sul letto, avvinto da un sogno a occhi aperti che volle completare senza le inibizioni della veglia.

La donna in questione aveva una selva di capelli neri corvini e una fronte talmente piccola da poter contenere solo una singola ruga che, orizzontale, sembrava separare le distinte fonti di letizia e tormento. Gli occhi erano abissi di una tale profondità da procurare sgomento. Mentre la bocca serbava discreta chissà quale carezzevole voce. Il corpo seguiva una linea seducente che era una provocazione alla maschile esuberanza.

L’aveva vista un tardo pomeriggio al parco e già dopo un attimo se ne era invaghito.

Non era ciò di cui la ragazza si era resa conto, visto che aveva continuato indifferente il suo passeggio.

La frequentazione, se vogliamo chiamare frequentazione il fugace incontro tra quattro occhi, poteva dirsi conclusa con l’eclissi del sole, che era calato eccessivo due spanne sotto l’orizzonte.

Lui invece aveva dilatato la storia, trasformandola in ossessione. Nei giorni a venire setacciò l’intera area ma senza successo.

Ora, si trovava lì, confortato in parte da questa persistente fantasia. E sperò che lei, marionetta del suo desiderio, non lo deludesse oltre.

Una volta a letto, abusò di quella visione e il giorno morì, ansimante per tale stretta.

Il sonno che lo assalì lo avvolse come fosse un bambino. E gli impresse la smorfia di un sorriso talmente gentile che fu proprio quell’innocente sentire a traghettarlo lungo la notte.

Fino alle colonne d’Ercole del mattino seguente.

A partire da quel sogno il suo mondo era diventato la metafora del grigio. Il plumbeo inverno assecondava le maldicenze su quel colore.

Nonostante la prostrazione non mancava al suo dovere. La parte buona di sé lo precettava al suo banco di scultore di preziose minuzie, lieve palliativo contro il suo male.

Capitava che distraesse le lancette dall’alloggio di pertinenza, per dar vita al gioco dove sfilare e non far cadere i pezzi accatastati gli serviva ad alleggerire il peso dell’afflizione.

Nelle pause gli operai improvvisavano una bisca scommettendo su lui o contro di lui. Abilmente completava quel rompicapo sempre in minor tempo, lasciando deluse le speranze degli altri che pagavano e ripagavano poste in gioco pari fino a due mesi di lavoro.

Il padrone della baracca lasciava fare, sentendosi in debito verso il suo equipaggio che aveva bisogno di un diversivo gagliardo, come quello che solo un amore tradito era stato in grado di figurarsi.

Questa escursione tra euforia e dannazione sortiva gli effetti di un refrigerio, pian piano fornendogli nuovo vigore che almeno un po’ sopiva la nostalgia della donna.

Ricco delle scommesse, impiegò l’ingente gruzzolo per accaparrarsi uno dei gioielli su cui lavorava.

Lo manomise lasciando che il cronografo fosse provvisto della sola lancetta dell’ora, che ruotava come una bussola ma con la flemma a lei congeniale.

Se avessero dovuto dedurre il suo lignaggio da ciò che gli ornava il polso lo avrebbero detto tenutario di grandi ricchezze.

E lui ne era un po’ costernato, non rinunciando però al fregio di quella preziosa patacca perfino quando andava a letto.

Oliò la frizione tra il suo monile e la sua umile indole, affollando la scatola con motti censori per niente indulgenti con tanta vanagloria.

Così, calava questi moniti nella fessura dello scrigno nero, sentinella delle sue proibizioni.

Poi tornava avido a mondare cassa, cinturino e cristallo dello sfavillante simulacro.

È un inganno pensare che un solo semplice oggetto lo avesse distolto dalle sue contrizioni.

Arrivata la primavera, un altro unguento per i suoi patemi era il recarsi al parco con l’amico.

La folla procedeva in due diverse direzioni, costipata in uno spazio affatto sufficiente. In modo che i respiri e le esalazioni di corpi in pendolare movimento si mischiassero in un unico concentrato di sudaticcia umanità.

Loro assecondavano il flusso coreografico di tale messa in scena, sgusciando tra i manichini che gli facevano da ostacolo.

Ciò era quanto di più espansivo gli riuscisse di fare e che li faceva sentire fintamente in società.

Ma era anche quanto a lui bastava perché il vano attaccamento alla ragazza affievolisse.

Infatti, il suo ingenuo sogno andava scemando, in modo da potersi dire convalescente da questa morbosità.

L’orologio si era stancato. Dagli astuti modi in cui si lasciava dimenticare, dedusse che il lunatico oggetto non gradiva più essere esibito.

Fu per questo che una domenica, al risveglio, lo sganciò dal polso e lo infilò nella scatola nera.

Così, quella mattina, i suoi occhi ancora cisposi parteciparono a una prodigiosa circostanza.

Tutto il suo romantico struggimento si dissolse via chissà dove, a far da nebbia ad altra suscettibile cecità.

Quella liberazione si tramutò nella genesi diun numero spropositato di aforismi.

Era fuorviante credere che il modo in cui le parole si succedevano in armoniche frasi fosse solo un lezioso incastro lessicale.

Si trattava, invece, di necessità che sgorgavano impellenti.

Questo breviario di norme non peccava nella forma ma rendeva soprattutto omaggio alla sintesi e alla sostanza.

Chi, in quell’occasione, si fosse trovato lì con lui sarebbe stato testimone della stesura dell’opera prima di un filosofo per diletto.

Erano passate ventiquattro orbite di lancetta intorno al centro del suo orologio. Questo era sempre stipato nel buio della scatola, tra il marasma di un’arte controversa.

Lui si trovava, in quel momento, presso il laboratorio a interrogarsi sulla stazza congrua del proprio manufatto. Domandandosi quale proporzione fosse consona all’equilibrio che c’è tra premura e calma.

Lontano dagli sguardi del titolare azzardò tante dimensioni quante potevano essere. Il cui esito finale puntualmente si involgariva sempre nelle medesime sembianze.

Anni di abitudine lo inchiodavano a quella forma.

Ultimò il suo cottimo con una fornitura di otto pezzi, uno esattamente ogni giro dell’oggetto ripudiato.

Per tornare a casa si immerse nel giorno di una città non ancora pronta all’imbrunire.

Rivisitava i suoi tentativi.

Stava congegnando il modo di evadere dalla circolare sequenza che imbrigliava le sue intenzioni.

Arrivato al portone lo aprì e fece le scale tre gradini per volta fino ad atterrare ansimante sulla sedia già pronta a riceverlo.

Il piano che aveva escogitato era particolare.

Avrebbe lavorato a casa su una lancetta già finita e agito, quindi, per sottrazione.

Scaraventando a terra la scatola nera e i suoi segreti recuperò l’aggeggio. Lo scassinò fino a isolarne la piccola freccia che, con delicatezza, estrasse dal quadrante. Poi, al camino, riscaldò l’ago per poterne modellare il nuovo aspetto.

Levò materia dalla materia. Un senso di soddisfazione lo colse all’altezza del bacino.

Mai avrebbe immaginato che un semplice atto potesse scuoterlo a tal punto. Ignorava il motivo di un simile sentore. Ma decise di non fermarsi, attirato da una premonizione.

Quello stato di grazia lo poneva, man mano che andava avanti, sempre più in una condizione di bisogno. Più stava bene, più voleva star meglio.

Distrasse ancora una minima dose di lega e ne ricavò ulteriori crampi di stupore. Poi cominciò a scalfirla fino a un punto di non ritorno.

Un’indescrivibile gioia si impadronì del suo corpo. Questa possessione, di per sé già sufficiente alla piena pace, lo costringeva invece a chiedere di più.

Così decise di eliminare il tassello dell’ultima briciola rimasta. In un solo colpo soppresse quel rimasuglio dallo spillo mutilato.

Percepì innanzitutto nero tutto intorno.

Ascoltò un fragore meccanico esplodere e implodere con la costanza di un pendolo.

Poi, vide la città contrarsi verso il centro dal suo estremo confine, risucchiata dal Nulla primogenito.

Ogni abitante, ogni cane randagio, ogni più piccolo ratto li osservava fuggire dalla prigione di un Presente espanso.

Quest’oggi esteso colava catrame, castigo di false illusioni.

Un ammasso di case, palazzi, edifici fatti della più resistente pietra mutarono in atomi molli alla mercé di un mortale destino.

Fu in questo modo che le tre dimensioni divennero orfane del Tempo.

Con il minimo muovere delle dita, aveva sconfitto l’eterno divenire, esiliandosi da esso ed eleggendosi capostipite di una nuova Beatitudine.



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