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Mauro Ferrari, Il fulcro della bilancia (1)



Parto da un fatto concreto: in questi giorni di clausura forzata un dato comune che traspare da ciò che scrivono gli studenti è una sorta di inventario della propria vita: i ritmi rallentati, non di rado la solitudine, hanno favorito l’emersione di un pensato individuale – come passare al meglio il mio tempo, cosa voglio davvero, quali sono davvero le priorità – cose così. Intanto anche il mondo della cultura e dell’arte, inevitabilmente, fa i conti con la nuova situazione, con la precarietà, la mancanza di contatti personali, ragionando su di sé. Tutti affermiamo ad esempio quanto la poesia sia utile, citando a riprova come siano stati i poeti a sentire e dire per primi certe cose, e meglio: come le conquiste scientifiche della prima modernità siano riflesse ad esempio in Shakespeare (“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”) o in un verso di John Donne come “e tutto mette in dubbio la nuova filosofia” che ci fa capire quanto il Seicento sia in sintonia con la nostra epoca; o possiamo ricordare come Blake abbia parlato dei danni sociali e ambientali della Rivoluzione industriale già nel 1780; come Baudelaire e Poe abbiano compreso tra i primi cosa significa vivere in una metropoli; come i grandi poeti modernisti del primo Novecento (da Pound a Yeats, da Eliot a Montale) abbiamo provato di nuovo lo spaesamento di vivere in un mondo in cui non v’è certezza se non il vivere tra “un cumulo di immagini infrante”.

Credo infine sia inutile ribadire che anche oggi, come sempre, la poesia è intrecciata al vivere che ci sta intorno, ed è imprescindibile per capire il nostro mondo: chi pensa che i poeti hanno la testa fra le nuvole ha una visione pateticamente distorta della poesia (il poeta come caso umano ecc.) – e sappiamo bene come certe operazioni pseudo-culturali di bassa lega abbiano contribuito a questo drammatico fraintendimento, cercando di dare un’immagine “giovane” e “popolare” della poesia, non per riavvicinarla al mondo reale dei possibili fruitori, ma nella speranza di fare audience o di smuovere vendite ridotte al lumicino. Checché ne dicano certi uffici stampa che neppure fanno un mailing promozionale...

Poniamoci qualche domanda: al di là di una auto-gratificazione sempre più astratta e patetica, la poesia dice davvero qualcosa di utile? Di più, saltando la falsa contrapposizione tra scienza e arte: è razionale, è logica? O è uno svago per chi vuole sfuggire (per poco) a un mondo tremendamente concreto?

La componente razionalista fra i poeti non è per nulla una merce rara, anzi. Tommaso Ceva definì la poesia “un sogno fatto in presenza della ragione” (1709), e a tutt’oggi non trovo una definizione migliore, anche se negli stessi anni Alexander Pope la definì “Ciò che spesso fu pensato, ma mai così ben detto”: concordo solo in parte: non spetta alla poesia essere assolutamente originale (anche se i giganti lo sono sempre), e circoscrivere il suo raggio d’azione allo stile è molto limitativo.

Lo sguardo scientifico sulle cose non è in fondo che un flusso di dati e informazioni (di “differenze”, secondo Bateson) dai sensi alla mente, quindi dentro di noi, e appunto il nostro vivere non è altro che un dialogo continuo fra il mondo interiore e quello esteriore. La mancanza o la negazione di questo colloquio è la mutilazione di chi ha perso l’uso dei sensi, che non trasmettono più al cervello, o la follia di chi è chiuso nella propria mente in un monologo sterile – evitando di parlare dei problemi morali, che sono un altro aspetto non secondario: “Scienza senza coscienza non è che rovina dell'anima!” diceva già Rabelais.

Io sono il mio corpo (inclusa la mia interiorità) e il mio linguaggio, ciò che del mondo conosciamo meno, tanto che le neuroscienze analizzano solo il funzionamento della macchina bruta, dell’hardware, e le moderne (non)scienze della mente sono basate sul linguaggio – sulla narrazione razionalizzante di sé, sull’idea che lo stesso inconscio sia organizzato come linguaggio (Lacan), sull’intuizione che la nostra stessa esperienza del mondo nasca dal linguaggio che parliamo (Sapir-Whorf): è un linguaggio che parla (di) se stesso. Eppure noi siamo la nostra interiorità, e il corpo, come lo sperimentiamo, è al massimo la pellicola esterna, ciò che vediamo di noi: guardarsi davvero dentro (far diventare l’Io un Me) è del resto impossibile, o un rischio e una condanna.

Tuttavia non possiamo trascurare il nostro vero Io: pensare a un mondo e una società (ma diciamo anche una scuola) che non promuova e anzi non parta dalla conoscenza e valorizzazione della propria e dell’altrui interiorità è pensare alla peggiore delle antiutopie – e non occorre negare la scienza per condividere questo assunto, anzi. Ted Hughes, sommo poeta inglese morto nel 1998 (che sto proponendo un po’ inconsciamente ai miei studenti di quinta), in un suo saggio sull’educazione parla dei miti, di cui è intessuta la sua poesia, non come un orpello per fortuna sparito da due secoli dal mondo dell’arte, bensì come patrimonio di storie, quindi di idee, che mettono in comunicazione il mondo esterno (appunto le storie) con la nostra interiorità (il che include i giudizi morali).

Francamente non credo che oggi sia praticabile una visione così estrema (per quanto provocatoriamente fertile), meno che mai nella nostra scuola, ma so che la poesia abita proprio all’intersezione di esterno ed interno, e che anzi serve (se serve a qualcosa) a bilanciare i due piatti della bilancia, di cui è il fulcro: ripescando un mio vecchio motto, questo è ciò che per me significa fare della vista una visione. La poesia ci fa sentire il mondo, gli dà “una certa coloritura di immaginazione” (Wordsworth) e, di più, ci fa capire come tutto ciò che sta al di fuori (dagli alberi al mio vicino di casa al coronavirus) debba entrare a far parte di noi. Perché io faccio parte del mondo, se posso appena stravolgere una frase di John Donne. E se non lo capisco, se non so metterlo in dialogo con me, lo faccio diventare un alieno e un nemico (e di gente che fomenta l’odio e l’incomprensione ne abbiamo già abbastanza).

Leggere un buon testo di poesia, e soprattutto trovare parole che parlino a me (trovando quella poesia che sembra scritta per me, magari duemila anni fa da un cinese) è fare un piccolo passo verso quell’equilibrio senza il quale la ragione dorme e genera mostri.

Vorrei riuscire a proporre, attraverso brevi riflessioni su testi poetici, qualche esempio pratico.

(segue)

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