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Mauro Ferrari, Appunti sull’eclissi della poesia (anche a scuola)

Intervento di apertura del saggio: Dove va la poesia? Riflessioni sul presente (puntoacapo Editrice, 2018). Contributi di Sebastiano Aglieco, Gian Maria Annovi, Corrado Bagnoli, Luigi Cannillo, Roberto Chiapparoli, Manuel Cohen, Mauro Ferrari, Marco Marangoni, Mario Gerolamo Mossa, Franco Nasi, Carla Mussi, Guido Oldani, Giancarlo Pontiggia, Alfredo Rienzi, Salvatore Ritrovato, Francesca Serragnoli, Emanuele Spano, Alberto Toni, Giuseppe Zoppelli


Credo che riproporre questa rapida riflessione sia il modo migliore per portare avanti un tema (un progetto) che si è di recente ulteriormente concretizzato con l'antologia Il posto dello sguardo, a cura di

Corrado Bagnoli, Mauro Ferrari, Alessandro Pertosa. Libro sul quale tornerò e di cui parlo nel video appena postato.



Mauro Ferrari

A mo’ di introduzione

appunti sull’eclissi della poesia (anche a scuola)

Quale poeta cinquantenne ha oggi la riconoscibilità indiscussa

che ebbero, alla medesima età, autori di un recente passato?

Enrico Testa, Dopo la lirica, Poeti italiani 1960-2000,

Einaudi, Torino 2005, pp. xxxi.

La Scuola dell’altro ieri

Quando diedi l’esame di Maturità nel 1978 gli autori più recenti del programma di Italiano erano Ungaretti, Saba e Montale (ancora vivente); dovendo ogni anno ascoltare le prove orali soprattutto nei Licei, noto che i poeti più recenti affrontati dagli studenti sono ancora gli stessi, con pochissime eccezioni. Non ne faccio una colpa degli insegnanti, sia chiaro, perché se passo all’Inglese (materia che io insegno) so quanto si fatichi per presentare scrittori attivi nella seconda metà del Novecento, per non parlare del contemporaneo, affidato a più o meno estemporanei Incontri con l’Autore. In sostanza, si può dire che i programmi degli ultimi cinquanta anni non hanno tenuto conto del passare del tempo. Né è un problema dei libri di testo, i quali presentano almeno molti autori degli anni Sessanta e Settanta... per poi fermarsi, o peggio inserire nomi improbabili o sbiaditi epigoni di chi forse è già un epigono: si tratta comunque di una parte di programma che in genere non viene raggiunta in quanto, partendo dalle origini e seguendo una scansione più o meno “tradizionale” e senza scelte drastiche e coraggiose (ma su che basi?), è molto difficile arrivare alla contemporaneità, per presentare autori viventi e magari incontrarli dal vivo e rendere la letteratura qualcosa di attuale. Lo stesso discorso si potrebbe applicare a Italiano, Storia, Filosofia, Arte: sembra quasi che la Scuola non voglia o non sia stata in grado di seguire l’evoluzione di quel “mondo reale” tanto invocato da politici e burocrati. Tutto ciò che accade dopo il 1960, diciamo, scompare letteralmente dal panorama scolastico e quindi culturale del Paese, come se la poesia (ma non solo) cessasse di esistere; anzi, di Montale viene spesso trattata solo la prima fase, fino a La bufera e altro – del 1956, oltre sessanta anni fa. Qui si ferma l’idea stessa di poesia, cioè che essa serva a rappresentare il mondo. Se è così, aboliamola o magari vietiamola, così almeno qualcuno le si accosterà come a un frutto proibito...

Il problema non è tanto quello di additare i colpevoli, ma di riflettere serenamente su tante concause.

Vorrei partire dal filone catastrofista, e in particolare da Dopo la poesia di Roberto Galaverni (Fazi, Roma 2002) e Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 di Enrico Testa (Einaudi, Torino 2005), due titoli che portano avanti un’idea postuma e apocalittica di letteratura (specie di poesia) che nasce nel Novecento. Mentre lavoravo a questo saggio è stata anche pubblicata la plaquette di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che... libro che nonostante la concessiva non pare esattamente ottimista sul presente e il futuro della poesia.

Per Galaverni, che come tanti critici non crede troppo nella vitalità della poesia contemporanea (o almeno nel livello assoluto delle voci migliori), siamo dopo la poesia perché la poesia “vera” aveva una funzione, aveva critici che la consideravano, o aveva forse semplicemente grandi poeti; è stato proprio il più grande, cioè Montale, che per primo ha notato la «straordinaria privatezza (privacy) del contenuti» (Poesia inclusiva, 1964), una privatezza che sembra rappresentare la ritirata dai territori del Grande Stile, più che un modo nuovo di fare poesia sull’Io dopo il Romanticismo. Galaverni segue sommariamente il lavoro di alcuni poeti “rappresentativi” per analizzare le rispettive modalità di “deriva” a partire proprio dall’ineludibile assunto montaliano, approdando alla felice ma limitante e milanocentrica definizione di “etica del quotidiano” (p. 128): cioè il Minimalismo autobiografico imperante in quello che sembra essere il Canone ufficiale della macroeditoria – il quale, comunque, nonostante la banalizzazione della visione del mondo e la sua pretesa affabilità non contribuisce in alcun modo a rendere la poesia più “popolare”. Anzi.

Per Testa invece siamo dopo la lirica, alla deriva dal punto di vista critico o forse all’affannosa e confusa ricerca di nuove “soluzioni” (cosa dire e come dirlo), in “assenza di poetiche forti” con un “altissimo numero di autori” (p. XXVI) e con “un atteggiamento di esposizione, impressivo e centrifugo” che “caratterizza dunque la parte significativa della poesia degli anni Ottanta e Novanta” (p. XXVIII). Quel “significativa” sembra proprio calcato sul Canone di cui sopra... Ma non sarebbe appunto il primo e forse unico compito della critica fare una ragionevole e informata selezione delle voci?

Quanto alla costruzione del Canone, in nota alla nuova edizione de Il pubblico della Poesia. Trent’anni dopo (2004), Berardinelli così stigmatizza la politica editoriale delle major:

Con gli anni Ottanta si è formato un “piccolo canone” comprendente una decina di autori, ma questo è avvenuto non perché un certo numero di critici fossero al lavoro e si discutesse della qualità dei testi. È avvenuto per decisione editoriale o perché alcuni autori mostravano di avere un talento autopromozionale più spiccato di altri. Così oggi se si vanno a vedere le collane di poesia dei maggiori editori italiani si può trovare di tutto: i nomi dei poeti effettivamente migliori si trovano accanto a quelli di autori che non si capisce neppure perché siano stati pubblicati e da quale mai genere di lettori possano essere letti.

Tengo per me un commento su quell’“effettivamente migliori”... Franco Cordelli, nella nota gemella alla nuova edizione, non crede alla crisi della poesia, ma alla fine scarica sui poeti la responsabilità del “non avere voce in capitolo”:

In quanto alla crisi della poesia, è una bufala retorica. Che non abbia più voce in capitolo, è evidente. Ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti. Per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali d’una volta (corsivo mio).

Personalmente non credo che i poeti siano “meno intellettuali di una volta”: semplicemente tutti gli intellettuali, eccetto quelli da salotto tv, hanno meno spazio, specie in un Paese in cui la saggistica è meno letta della poesia. Ed è impossibile, credo, dipanare un viluppo di cause ed effetti che coinvolge la prassi dei poeti, a volte aberrante, la non-funzione della critica, la crisi dell’editoria – in una situazione epistemologica che non premia certo i tempi lenti, densi e profondi della poesia.

La fine dell’Editoria?

Sfatiamo un mito: se spulciamo i cataloghi ci rendiamo conto che la grande Editoria, a cui gli esordienti mandano migliaia di manoscritti l’anno, non pubblica quasi più poesia, in un mercato in cui le major (senza comitato di lettura, senza mailing promozionale, senza magazzino di poesia) anche per i nomi più noti stampano tirature minime e un titolo “di successo” vende poche centinaia di copie. Non dimentichiamo poi che la grossa editoria non pubblica più di dieci titoli l’anno. Se passiamo alle pochissime sigle di media editoria, spesso collegate alle major, che ancora pubblicano (pochissima) poesia pur sostenendosi grazie agli altri titoli (e comunque scendendo di fatturato e di potenzialità), aggiungiamo una dozzina di titoli annui di qualità alterna e spesso pubblicati senza continuità, in maniera quasi estemporanea.

La piccola editoria – ma sarebbe meglio dire l’editoria specialistica – sta vivendo da un lato chiusure e riaperture, riduzione e chiusura delle collane, ma dall’altro vede il rafforzarsi di un piccolo numero di marchi che stanno occupando gli spazi ormai sguarniti. È chiaro che qui le potenzialità sono collegate alla passione dei collaboratori e alla capacità di attrarre autori di peso grazie all’attività di promozione, come sono chiare da un lato l’attrazione fatale del vanity publishing e dall’altro la tentazione di limitare i titoli di poesia e puntare su altri settori – il che spiega in buona parte le altalenanti fortune di non pochi di questi marchi.

Una riflessione: scendendo di fatturato, aumentano i titoli. E, all’inverso: salendo di peso, per gli Editori la poesia diventa meno interessante. In termini economici: fare pochi titoli di élite o supposta tale non rende; facendone di più, il livello scende e il prestigio svanisce. È in questa ricerca di equilibrio che si giocheranno sempre più le fortune dell’editoria specialistica, man mano che le major, ineluttabilmente, cesseranno di dare spazi alla poesia.

La situazione sopra tratteggiata è il prodotto della nuova situazione, in cui la critica accademica non segue l’evoluzione del fare poesia – perché semplicemente non legge i libri o li legge con il pregiudizio secondo cui “la poesia significativa” è quella del Canone Mondadori e del poco o nulla che vi ruota attorno e che dà quell’apparente visibilità che nel concreto è data dai premi più importanti, dalle poche e brutte recensioni sulla carta stampata, dagli inviti ai festival, dagli acquisti delle biblioteche… Da questa letargia della critica discendono cataloghi di gran nome e tradizione ma ahimé con spessore qualitativo e quantitativo esilissimo, antologie che seguono la traccia della grossa editoria o peggio sono esempi eclatanti di nepotismo, di disinformazione o visioni distorte. Di qui è facile dire che la poesia è in crisi, che non ci sono linee guida, che la fine dei manifesti è anche la fine delle poetiche, sia di quelle aprioristiche e dogmatiche (per fortuna...) sia di quelle che più sensatamente cercano i sottili ma spesso forti fili di connessione tra tanti poeti.

Peccato, ci stiamo perdendo tanta della poesia migliore.

Dopo la poesia, dopo la lirica? O dopo la critica?

Certo, l’idea di poesia è sempre in evoluzione: Montale sottolineava come nella poesia sono entrati “il ragionamento, il racconto, il discorso, la cronaca, la storia” (ma ne erano rimasti fuori?), e Testa evidenzia come “l’abituale distinzione tra lirico e antilirico, utile in passato, non sia qui più produttiva” (Testa 2005, p. xxviii). Mettiamo da parte il troppo famoso e superato libro di Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna (1957): il punto chiave della poesia lirica è che – se escludiamo gli altri due generi della poesia epica e drammatica – possiamo inventare moltissime etichette che sono suoi sotto-generi. Non è nemmeno un problema di struttura, di prosodia, di tema: la poesia è espressione di una visione del mondo (una, personale) indipendentemente dalle infinite modalità secondo cui l’autore (il responsabile del testo) decide di dare forma di parole a questa visione. Che nasce – e non può fare altro – da una esperienza personale, da una Erlebnis trasformata in Erfahrung (secondo la formula di Benjamin, l’esperienza non vissuta ma accumulata). In una formula che mi pare perfetta: fare dello sguardo – ciò che del mondo vedo, sento, so, ciò che posso dire insomma – una visione: non posso comunicare il mio sguardo, ma se lo innalzo a visione (inteso in senso laico e concreto, sia chiaro) accedo a quella sfera umanissima in cui posso comunicare davvero, più che “inviare messaggi” – una cosa di cui oggi non c’è ulteriore bisogno!

È qui che si decide la grandezza – diciamo il valore – di un poeta, a maggior ragione nel bombardamento di esperienze mediate, con la perdita di riferimenti e l’abbondanza di realtà: cosa ce ne facciamo del poeta che indugia nelle minuzie melodrammatiche della propria vita, che ci offre la sincera narrazione di sé senza la necessaria distanza dell’atto creativo, indispensabile affinché ci si riconosca nella sua scrittura, cioè nella sua visione? La scrittura, specie la poesia, deve dare una rivelazione (nel senso concreto di svelamento), che non è mai melodramma. È una visione complessa, anche se questo non vuole per nulla promuovere l’incomprensibilità del testo poetico – troppo spesso frutto di malafede o semplicemente di bersaglio mancato da parte di un poeta che non sente fino in fondo la responsabilità del proprio testo – quanto difendere la sua complessità, il suo essere appunto testo, acuta visione e non ingenuo sguardo.

Se i cataloghi che puntano a essere “di riferimento” non vengono costruiti su queste basi o magari si basano su un’idea di poesia come sterile sperimentazione e non come lavoro sul linguaggio, è ovvio che si autorizza una visione autoreferenziale della poesia, come vuoto giochino intellettuale.

Ma un altro punto chiave è che, ragionando in termini di Io e Mondo, in realtà restiamo ben lontani dalla inafferrabilità della cosa in sé che la scienza oggi ci insegna; e non si tratta di accettare che “Io è un Altro”: oggi la visione del mondo deve tener conto della concezione probabilistica del reale (di cui l’Io fa parte), dell’indeterminazione di Heisenberg e non del determinismo di Laplace, del mondo contro-intuitivo di Planck e non di Einstein, per non dire di Newton. Ma il testo, con le sue ineludibili faglie, con gli slittamenti, le sue ambiguità, i suoi molteplici livelli di interpretazione, vive già in questa nuova dimensione, perché ci ha sempre vissuto: il testo non ci dà risposte, ma ci insegna a porre domande, a capire come convivere con l’Indeterminato, persino col caos (che sia reale o apparente poco importa). Una poesia, come qualunque opera d’arte, è il risultato di una lotta disperata per dare un ordine momentaneo e quindi un senso al caos del mondo e della vita.

Riflettiamo ancora: Enrico Testa parla di «progressiva riduzione del prestigio del discorso letterario, incapace di sincronizzarsi al ritmo vorticoso del mutamento del Costume e del sentire.» Ma non è proprio lo specifico del discorso letterario la sua non sincronicità con il presente? Non è questa che va difesa? Io non credo che esista una via di mezzo, anche considerando che è qui che si vede ad esempio un buon insegnante. Anche da insegnanti, dobbiamo porci una domanda: crediamo nella letteratura proprio in quanto portatrice di una fertile diversità (quella “diversità della poesia” di cui parla Salvatore Ritrovato) o insegniamo per inerzia ciò che ci è stato insegnato anni fa in una supposta età dell’oro?

Leggo una frase sull’Editoriale di Poeti e Poesia (n. 34, aprile 2015), a firma di Paolo Febbraro: “Quasi nessuno ci dice dove sbagliamo”. Ma questo non è il compito della critica! E men che mai un compito cui può, vuole e sa adempiere la critica di oggi. Sono i poeti i migliori critici di se stessi e degli altri poeti, la vera autorità da convocare!

E quindi la poesia è finita? Forse. Non sono per nulla ottimista. Ma ci sono modi per causarne o affrettarne la fine, e pare che si stia pervicacemente lavorando in quella direzione. I poeti devono invece tornare a lavorare sulla complessità del mondo, prestando fede ai poeti, quelli veri, che non sono pochi, evitando l’equazione fatturato editoriale=qualità del catalogo (anche perché le vendite dei libri di poesia delle major non sono troppo diverse da quelle dei migliori cosiddetti piccoli!) Occorre che la critica sia di nuovo fatta dai poeti, come è sempre stato, senza istituzionalizzarla e anzi demolendo i pochi e inutili residui di istituzionalizzazione che restano.

Chiudo con un ragionamento per assurdo che parte da quanto detto in apertura e che propongo agli insegnanti (quindi anche a me stesso): davvero pensiamo che non ci saremmo persi nulla di fondamentale se nel 1967 (cinquanta anni fa) non si fossero insegnati i poeti dell’allora recente passato e dell’allora presente – e faccio solo i nomi canonici di Gozzano, Saba, Ungaretti e Montale?



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