Giancarlo Baroni, La beatitudine incerta dei poeti
Si sa che scrivere è tensione, sforzo, concentrazione, sconforto, delusione, fatica, ansia, sofferenza, insoddisfazione e turbamento. “Scrivo per un’infinità di motivi […] Non certo per divertimento. ”, confida Beppe Fenoglio, “Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”. Parecchi altri autori confermano o inaspriscono la testimonianza precedente, a cominciare dal premio Nobel Derek Walcott che consiglia: “dopo un giorno passato a capo chino, / sanguinando poesie, / ogni frase estratta dalla carne avvolta in bende, / alzati, va’ a passeggio sotto un cielo / fradicio come bucato in cucina”.
Fra le diverse inquietudini che affliggono gli scrittori, ce n’è una particolarmente irritante e pungente, una specie di perenne malcontento che li spinge a migliorare, correggersi, competere e primeggiare, una scontentezza che li trascina verso una condizione d’ingordigia e d’insaziabilità, verso un complicato sentimento di ambizione terrena e di aspirazione all’immortalità. William Butler Yeats paragona tale smania alla voce di un fantasma dispettoso e incontentabile, che di nascosto continua a spronare e a incitare chi l’ascolta: “Il lavoro è compiuto […] ”, dice Yeats, “ / Secondo i piani fatti in giovinezza; / E gli sciocchi s’infurino pure, non ho fallito in nulla, / Ho portato qualcosa fino alla perfezione; / Ma quello spettro cantò ancora più in alto, ‘E poi?’”.
Il desiderio di essere stimati e apprezzati, la voglia di considerazione e fama, sono sempre in procinto di trasformarsi in voracità, in un’avidità molesta che fa pensare al dopo, a quello che non si è ancora stampato, che fa scordare i testi già pubblicati, i libri appena scritti.
Rispunta il peccato di cui soffrono i poeti, il vizio da cui non riescono a sottrarsi: un narcisismo che li rende vanitosi e superbi, che li spinge a credersi insostituibili e necessari, a ritenere il loro lavoro indifferibile. L’egocentrismo rischia di farli sembrare capricciosi, scomposti, meschini e un po’ ridicoli, di farli assomigliare al personaggio che il canadese Layton, con comicità e autoironia, raffigura:
Non avevo spiccioli
e mi precipitai nel negozio
più vicino alla banchina.
“Voglio della carta”, quasi gridai
alla negoziante di mezza età
che allestiva la mostra mattutina
di frutta e verdura;
mi guardò come per dire
“Che importa, ho fatto
a meno di molte cose che desideravo”
[…]
“Sto componendo una poesia”, le dissi
non sentendomi affatto grande
ma imbarazzato e assurdo
[…]
“Cosa seria”, fu tutto quel che disse,
e scomparsa
riaffiorò improvvisamente
fogli occorrenti in mano
Riguardo al comportamento dispettoso e invadente della poesia, la svizzera Elisabeth Meylan riferisce questo episodio: “Mentre andavo alla posta / mi è apparsa, all’improvviso, non ancora / poesia, ma già a contorni chiari. // Verso mezzogiorno - / ero a provar vestiti / in un negozio - / mi si accostarono parole, / arrivarono frasi, insistenti, / timorose. // Verso le cinque – ero finalmente / pronta alla stesura – mi aveva voltato le spalle. / l’ho richiamata indietro, credevo / di poterla fermare. E proprio allora, / definitivamente, è scomparsa”.
Sappiamo il fastidio che procura il non ricordare, quando è necessario e urgente, un numero di telefono o della carta di credito, il non ricordare, mentre si chiacchiera, il titolo di un libro o di un film, il nome di un conoscente. Ci sforziamo in quei momenti di cercarli in ogni angolo della nostra memoria e tuttavia, appena crediamo di averli afferrati, ci sfuggono di nuovo. Una irritazione simile, ma d’intensità decisamente superiore, viene provata dagli scrittori quando le parole non raggiungono la punta della loro lingua e poi quella della penna riversandosi finalmente sul foglio.
Ciononostante, avverte Pessoa, bisogna ritenersi soddisfatti anche quando una poesia continua a girarci dentro il cervello confusa, informe e sfumata, eppure dobbiamo sentirci contenti per il fatto di possedere una sensazione embrionale di poesia, e di esserne a nostra volta posseduti:
Nella mia mente è sopita una poesia
che esprimerà la mia anima intera.
La sento vaga come il suono e il vento
eppure scolpita in piena chiarezza.
Non ha strofa, verso né parola.
Non è neppure come la sogno.
un mero sentimento indefinito,
una felice bruma intorno al pensiero.
[…]
So che non sarà mai scritta.
So che non so che cosa sia.
Ma sono contento di sognarla,
È una falsa felicità, benché falsa, è felicità.
Quando la lirica smette di essere un’idea per trasformarsi in una composizione finita, allora la felicità può risultare autentica e assoluta, somigliante a una folgorazione, a una rivelazione. Racconta Pablo Neruda che il giorno in cui la poesia venne per la prima volta a cercarlo, chiamandolo “da una strada” o “dai rami della notte” e turbandolo come una “febbre” che ustiona: “[…] scrissi la prima riga incerta, / vaga, senza corpo, pura / sciocchezza / pura saggezza / di chi non sa nulla, / e vidi all’improvviso / il cielo / sgranato / e aperto, / […] // Ed io, minimo essere, / […] / mi sentii parte pura / dell’abisso, / ruotai con le stelle, / il mio cuore si sparpagliò nel vento”.
Irving Layton nuovamente confessa: “E io strafelice quando compongo versi. / Amore, potere, l’urrà della battaglia, / sono qualcosa anzi sono molto; / tuttavia una poesia li include come uno stagno / acqua e riflesso”.
Con accenti da “fanciullino” pascoliano ( il cui occhio stupito e curioso è capace di vedere e scoprire quello che a parecchi solitamente sfugge ), Umberto Saba garantisce che la beatitudine non appartiene soltanto al momento artistico e creativo, siccome accompagna lo scrittore durante l’intera giornata diventandone la dimensione esistenziale: “Il poeta ha le sue giornate / contate, / come tutti gli uomini; ma quanto, / quanto beate!”. Anche Giorgio Vigolo mette in risalto il vincolo familiare e confidenziale che lega opera e autore: “Poesia, poesia, siedi al mio tavolo, / stammi vicino, fammi compagnia / come sempre me l’hai fatta, / tu sola e vera moglie della mia vita”.
La poesia finisce insomma per miscelare, fino a fonderli in un’armonia precaria e incerta, in un equilibrio dinamico e duttile, spinte e pulsioni contrastanti, motivazioni ambigue, tendenze all’apparenza inconciliabili, tensioni che si confrontano e si scontrano, bellezza e scompostezza, serenità e dispiacere, eccetera. Il boliviano Oscar Cerruto afferma al riguardo che le parole poetiche sono contemporaneamente liberatorie e opprimenti, rassicuranti e perfide, amichevoli e traditrici, lusinghiere e ostili: prima “ti esaltano”, “ti festeggiano”, “accarezzano”, “innalzano”, “vestono di luce” e “fiori”, “incoronano d’alloro”, ma “poi ti mordono” e “lapidano” e “sotterrano”.
Con una di quelle immagini esemplari e laconiche capaci di riassumere un intero discorso, Fernanda Romagnoli ribadisce che la lirica
[…] nasce dal connubio
fra colomba e serpente. […]
GIANCARLO BARONI
RIFERIMENTI BIBLOGRAFICI
1. E.F.Accrocca, a cura di, Ritratti su misura di scrittori italiani, Venezia,1960, citato in W.Mauro, Invito alla lettura di Fenoglio, Mursia, 1988.
2. D. Walcott, La passeggiata, in Mappa del nuovo mondo, Adelphi, 1993, trad. di G. Forti.
3. W. B. Yeats, E poi, in Poesie, Mondadori, 1974, trad. di R. Sanesi.
4. Layton, Poesia e La nascita della tragedia in Il freddo verde elemento, Einaudi, 1974, trad. di A. Lorenzini.
5. E. Meylan, Il giorno in cui ho perduto una poesia, in “Poesia”, n.129, giugno 1999, a cura di A. Zweifel Azzoni.
6. F. Pessoa, La poesia, in Il violinista pazzo, Mondadori, 1995, a cura di A. Di Munno.
7. P. Neruda, La poesia, da Memoriale di Isla Negra, in Poesie (1924-1964), Rizzoli, 1996, traduzione di R. Paoli.
8. U. Saba, Il poeta, da Trieste e una donna, in Antologia del Canzoniere, Einaudi, 1966.
9. G. Vigolo, Canto del destino, in La luce ricorda, Mondadori, 1967.
10. O. Cerruto, Il pozzo verbale, in “Poesia”, n.131, settembre 1999, trad. di C. Cinti e G. Pizzo.
11. F. Romagnoli, Re Lear, in Il tredicesimo invitato, Garzanti, 1980.
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