Alberto Rizzi, Tre inediti
*
E allora
non stare a ricordarmi
d’inverni crudi e freddi
in quest’autunno che a stento se ne viene
a confonderci i gerani
in un secondo risveglio
parlami di come l’errore di un suono
modifichi il senso al suono stesso
creando imbarazzo
in chi l’orecchio prema al proprio cuore
o sviando il ragionare
da sua giusta fine
Fammi riflettere su equivalenze
in questo solido mondo attorno
sul tappeto di foglie infisse al marciapiede
che crea analogo disagio
dopotutto
obbliga all’accelerazione le vene del sangue
come di fronte a parole
troppo ricche di vocali troppe
O su queste case
sui muri delle quali
rami d’edera se ràmpegano
frasi d’un coro
che s’acqueta a un suo quàsitacére
al perdere vigore delle foglie
verso che viene ‘o vierno
E la coppia d’anziani
seduta al magro prato di periferia
non cura il treno
che corre a fianco delle loro vite
e oppone il reciproco silenzio degli sguardi
al quel metallico
estraneo parlare
Anche la pioggia e i suoi scrosci
le sue consonanti
battenti suolo vero e asfalto
sono per ora una minaccia lontana
un fruscio che può essere
per ora
altrove
dove forse sto andando
curioso al momento d’altri suoni
più che d’altri domani
d’altri artifici a un essere incompiuto
*
Dunque queste parole
(guardale)
che il tocco d’un dio dentro noi
ci fa erigere d’orgoglio
entro un contesto infimo e banale
e che poi finiscono dimenticate
sbiadite
come segni da uccelli in volo
riflessi da un parabrezza d’auto
nel fermo sole dell’estate
Ciò che scompare e ciò che rimane
le vocali
parti molli che se n’evaporano
fino ad assentarsi
in poca e rada traccia
macchia cómedilichène su superficie sbavata
le consonanti a rimanere dritte
costole e vertebre di fossili
nella piana gìroorizzónte
d’un deserto di suoni
a perenne parziale memoria
monito
per chi verrà
oppure
parole martellate al fuoco del pensiero
a brandelli
nel campo minato ch’esplode d’esistenza
di voci
pagina per tutti e per nessuno
sulla quale loro sanno e vanno
anche per noi
(tratte dalla raccolta inedita “Verba”)
IL NOME
Tu pensa
se sia giusto chiamare un luogo
qual esso sia
“terradura”
così da immaginarsi inutile
ogni gesto che curi
apra un futuro
che soffio porti
alle speranze del cuore
Così da immaginare
donne dalle cosce scoscese
difficili da raggiungere
il ventre colmo d’uova
e che fissano dallo sfascio di veneziane
sbilenche su facciata lasciata all’abbandono
e un florilegio di formiche
infine
a grumo dal piede d’una pianta seccata
Così da immaginare un amante solitario
di vedetta lassù in alto
(se ci fosse pietà d’un dirupo
in questa terra d’orizzonte piatto)
nell’attesa di un nulla
che gli sia di compagnia
E tu allora passeresti per le vie
per lo spazio a volte fango
che si erge a piazza
àltovociàndo fra te e te
“Quale sarà il nome di quell’altro luogo, quello vivo di gente; quello il cui albergo
accanto alla stazione era invece scrostato e serrato agli ospiti?
Ditemi il nome, il nome perdìo! Ditemi il nome!”
Vivono solo di ossimori
gli abitanti di questo deserto
ciascuno di loro solo
come un blu intenso
a filo d’orizzonte
Ed è come un risvegliarsi
un’attenzione inconsapevole
al duro profilo di donna
che traversa il percorso degli occhi
anche al bambino che va oltre
così mànoalpàdre
in un controluce vetrato
andrà oltre
a pascolare un dove
Mia ecchimosi
escrescenza
mio ricordo
(tratte dalla raccolta inedita
“Il mestiere e altri accidenti”)
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