Vincenzo Di Giulio parla della sua raccolta Anima mundi (puntoacapo 2022)
Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti
che è il mondo del tempo.
Il nostro sforzo, incessante e inconsapevole
è un tendere fuori dal tempo
all’attimo estatico che realizza la nostra libertà.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Se dovessi individuare un filo conduttore unico che attraversa le 88 poesie della silloge, questo è la rappresentazione astratta, poetica, del tempo, nelle sue diverse accezioni, l’evocazione e la narrazione del nostro vivere in rapporto con il tempo e fuori dal tempo.
E aggiungerei anche altre due elementi, due concetti, come fonti di ispirazione: la fragilità e il mistero.
La fragilità, ossia la fragilità della natura umana
Ho cercato di esprimere il senso di ciò che è precario, transitorio, temporaneo.
Una sensazione che ci espone inevitabilmente a mettere in luce la nostra debolezza, la dimensione finita e vulnerabile della natura umana.
Sentiamo il disagio di questa condizione, ci agitiamo, tentiamo di dominare questi limiti, cerchiamo di riscattarci da noi stessi, in diverse direzioni.
Ma poi c’è un passaggio, un percorso, verso una nuova consapevolezza: la constatazione della nostra fragilità si tramuta in ricchezza, in dono, quando riusciamo a comprendere come essa sia una condizione naturale, necessaria, il tramite in grado di condurci verso una dimensione nuova.
E’ la nostra limitatezza che ci rende, tutti, preziosissimi frammenti, dispersi, dell'unica anima del mondo.
Ci spinge a maturare un senso d’identità più ampio, a ricomporre le nostre lacerazioni, in un’unità non provvisoria, non artefatta, ma sostanziale, profonda. E allora siamo restituiti al nostro ruolo insostituibile, quello di creature, e in quanto creature, siamo entità create, a partire da un unico nucleo, secondo un processo di generazione e di sviluppo per molti versi ignoto.
Lo spirito che anima la silloge nasce da questa ricerca, è il tentativo di abbattere le barriere fra noi e ciò che di vero, di vivo, ci circonda, per scoprire quel legame di mutua appartenenza che ci connette alle radici comuni, condivise, della vita. E’ l’indagine del punto di contatto fra la nostra carnalità e una spiritualità diffusa.
Vuole tramettere un senso di necessità, di una continua, irrisolta, inestinguibile ricerca di vita dentro la vita, di un recupero di spazi, di valori, di una espressività più pura, ancestrale, primitiva.
Il bisogno di riconquistare l’innocenza dell’essenziale, il sapore del piccolo, il brivido della meraviglia.
Poi il mistero
“Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene”, diceva Ungaretti
E la poesia è veicolo preferenziale del mistero, il mistero come elemento cardine dell’esperienza umana, un elemento imprescindibile.
Dinnanzi al mistero si innesca un gioco di forze contrastanti, si è in bilico, fra la necessità di indagarlo, di arrivare parzialmente a comprenderlo, e il desiderio di mantenerlo intatto, invalicabile, oscuro, perché in tutto ciò che è oscuro, in fondo, vi è una forza vitale, di grandissima suggestione.
Ci dà tensione, proiezione in avanti, ansia di ricerca. Ne abbiamo un infinito bisogno.
Nelle sue diverse manifestazioni: il mistero del nostro cammino, in una direzione che a volte ci sfugge, o che muta, il mistero di ciò che proviamo, dei sentimenti o dei turbamenti improvvisi, a volte inafferrabili anche per noi, il mistero della nostra multiforme natura.
Il mistero dei misteri, quello del passaggio dalla vita alla morte, ritratto ora come un istante finale, oscuro, ora con la visione nitida di una nascita, di un tempo nuovo, una rinnovata libertà.
E infine, soprattutto, il mistero di Dio, del nostro credere in lui, della sua presenza in noi. Una presenza necessaria, urgente, per dare un senso a tutto. Un Dio evocato, sperato, voluto. Comunque sentito.
E quindi il tempo
Il tempo come dimensione quasi adimensionale, come onda del mutamento ma anche come istante eterno, immutabile. Il tempo nelle sue diverse declinazioni: il tempo materiale e misurato, da abitare consapevolmente e produttivamente, così come il nostro tempo intimo, incommensurabile, inaccessibile al mondo, un tempo che non ci chiede nulla, ma conserva la nostra presenza più vera.
Il tempo circolare che ci avvolge, ci obnubila, che spesso ci ignora, e il tempo che non esiste, tutto il tempo perduto, rimasto in un angolo buio dell’essere, atteso da sempre. Il tempo come linea di demarcazione che trasla, fra l’essere e il divenire. Il tempo, infine, come anello di congiunzione con l’infinito, un tempo al di là del tempo, nudo, buio, in cui poter svanire, o forse ricominciare.
La città invisibile
È una poesia che si ispira a quella che personalmente penso sia in assoluto il vero capolavoro di Calvino, “Le città invisibili”, romanzo che come disse lo stesso autore nasce da una collezione di ritagli poetici che via via aveva scritto e nel quale i concetti di spazio e di tempo sono assolutamente stravolti, rimescolati, dilatati, poi ristretti, capovolti, riconcepiti da un fervida fantasia, perché in realtà, vuole dimostrarci lo scrittore, rappresentano solo la veste esteriore di una stessa, inafferrabile, dimensione universale.
Voleva scolpire gli interstizi delle pietre
scavarli ad uno ad uno
perché in ogni filo del futuro
l’erba avrebbe cresciuto quell’istante.
Dove giaceva il suo presente.
Voleva le luci riaffiorare nello scorcio
oltre il germe da cui era nato, il buio
e mettere casa dopo casa, un prato
perché prendesse forma la città irreale.
Ripristinare lì ogni passato
in cui lui era l’escluso.
Convertire gli anni in luogo.
Voleva attraversare l’inferno dei viventi
la corrente che risucchia
e abitarvi tutti i giorni
o dare spazio al tempo, per riconsegnarlo
intatto
al capezzale dei dormienti.
Riponeva
Ci sono poi poesie che ci parlano di piccoli gesti, rituali, che assumono un significato a volte molto più profondo. È il caso di questa poesia:
Riponeva le scarpe diritte, supine
accostate alla cera avorio del legno
nell’apposito cono creato nell’aria
da una coltre di ombre sospese nel vano
e raccoglieva i lacci ognuno all’interno
perché avessero anch’essi un giaciglio
per riserbo
per tenere a se stanti i dolori, composti
perché i tacchi potessero reggerne il peso
e curarlo, quell’animo liso e mediocre
la fibra discinta dal ventre del tempo
fermarlo nel numero fisso del cuoio
lo sfregio dell’asola
il logorio di un passare indistinto.
Marguerite
E’ una poesia che si ispira a quel raro, prezioso miracolo di intensa, profonda scrittura che è il romanzo autobiografico “L’Amante” di Marguerite Duras, una storia d’amore che non è una storia d’amore, o non solo, è il tentativo di percorrere, sulla terra, la strada dell’eterno.
Presto fu tardi
quando vide passare l’immortale.
Nell’istante della musica.
Nel mare.
Nella vita, infinita per chi vive.
Perché di vita non si muore.
L’immortale, invece, sai
conosce ciò che muore.
Ha visto morire la sua fine.
Ma poi glielo aveva detto.
Le aveva detto che era lei la sua fine.
Che loro due, insieme, erano l’immortale.
Che lui non l’avrebbe mai vista finire.
Per sempre. Fino alla morte.
Akakij
E’ una poesia che porta il nome del protagonista, tragicamente grottesco, del racconto “Il cappotto” di Gogol, un uomo che di professione fa il copista ministeriale, il più bel lavoro del mondo perché non occorre pensare, bisogna solo mettere in bella quello che hanno scritto gli altri. Un uomo timido, che trova gratificazione nel suo impiego, chiuso nella sua solitudine, vive una sua contorta felicità, fatta di quelle che Guido Gozzano chiamava “le buone cose di pessimo gusto”, ama lettere maiuscole scritte con l’inchiostro rosso, lo stufato di montone con la cipolla, le tante carte copiate e tenute in casa.
E si copriva la faccia con le mani
vivendo, piccolo, nell’infinitamente piccolo
in ogni sua goccia a decifrare il mare
il codice segreto, il timbro miniaturizzato
dell’infinitamente grande, del creato.
“Lasciatemi, perché voi mi offendete ?
Attendo solo ciò che Iddio, volendo
mi invierà da ricopiar dal cielo."
Come se fosse un angelo caduto
chiuso nella gabbia delle linee esatte
intento a lasciar copia nell’eterno
poiché copiando trascriveva in realtà se stesso
nel profondo
per proteggersi dal possedere un dentro
e perché le linee dritte racchiudono il finito
sì che il mistero vi resta imprigionato
il mistero in cui vive l’assurdo
e nell’assurdo si perdeva il suo presente
come se non fosse mai esistito.
La fine dell’eternità
E’ una poesia che ripercorre, su altre strade, il concetto di viaggio paradossale al di fuori del tempo concepito nell’omonimo romanzo di Isaac Asimov
Ciò che permane nel tempo
s’incurva dentro se stesso
un infinito piegato dal cosmo
nel continuo corso del cielo
lo ione costretto alla valvola
la spirale di un flusso remoto.
Trovare un futuro anteriore
per abitare il lembo di tempo
che giace esterno all’eterno
la quota restante di luce
lì, oltre il cono del giorno
nel buio sottratto al perenne.
Affinché tutto resti mutante
per continuare ad infrangersi
sul crinale lasco del volo
scomporci ancora in noi stessi
trasfigurarsi in un punto
in qualche istante del mondo.
Nato a Taranto nel 1968, Vincenzo Di Giulio vive a Roma, dove lavora come quadro dell’area tecnica di una nota società di Telecomunicazioni. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, ha coltivato sin dagli studi classici la sua passione per l’espressione poetica, con una predilezione per le opere di autori quali Ungaretti, Pavese, Luzi, Fortini. Con le poesie della sua silloge di esordio Il Nero e il Sole (Viaggiando Altrove, Laura Capone Editore, 2021), è risultato vincitore della VIII edizione del “Premio Nazionale Letteratura Italiana Contemporanea” e della II edizione del Concorso Letterario “I Colori delle Parole”, oltre ad aver ottenuto altri riconoscimenti tra i quali la segnalazione di merito nella XIV edizione del “Premio Internazionale Mario Luzi”.
Come inedito, Anima Mundi è stata insignita del Premio Letterario Internazionale “Lago Gerundo” XIX edizione, si è classificata al secondo posto nella XV edizione del Premio Nazionale “Alberoandronico” e ha ottenuto la segnalazione di merito nella XVI edizione del Premio Internazionale “Mario Luzi” sezione “Poesia nascente”.
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