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Massimo Barbaro, Marco Ercolani, L’arte della distanza, puntoacapo 2020

Per uno scrittore vero poche cose sono personali e intime come la propria scrittura, cifra del proprio essere e strumento con cui si indaga se stessi e il mondo. Più si sale nella scala del valore letterario (in prosa e in poesia) e più questo assioma è vero. Eppure, nel corso di una lunga militanza letteraria e critica, Marco Ercolani si è associato non solo alla moglie poetessa Lucetta Frisa, ma anche a Massimo Barbaro (qui e in Paesaggio con viandanti, 2015). Abdicando quindi alla propria personale cifra letteraria e tematica? Assolutamente no: anzi, riprendendo il titolo appena citato, accogliendo compagni di viaggio nel paesaggio della vita, e della letteratura come suo strumento di indagine, creando una rete infinita di scritture che si intersecano e sovrappongono – famosi gli apocrifi, genere di straordinaria complessità che ha coltivato per più libri e che anzi sono la sua marca distintiva. Un intrattenimento infinito, per dirla con Blanchot, che apre porte le quali però non conducono a spiegazioni definitive, ma a labirinti, scrittura che germinano su se stesse e producono altre scritture senza fine, senza mai cadere nell’insipienza di certi esercizi iperletterari di tipo decostruzionista o puro divertissement di alchimia della parola.

In questo straordinario L’arte della distanza, la prima tentazione è quella di trovare la differenza, indicare le distanze appunto tra i due autori, soppesando le cifre stilistiche e le arre tematiche che vengono indagate; oppure si può accogliere la provocazione, riconoscere una eccezionale “divergenza parallela” fra i due autori, andare oltre e affermare non troppo paradossalmente che questo libro è stato scritto da Massimo Ercolani; o, anche, da Marco Barbaro.

Sullo sfondo di una visione che potrebbe apparire sconsolante (e invece stimola alla creazione artistica, come riparazione della poesia/letteratura o monumento più perenne del bronzo nell’andare del tutto verso il nulla), Ercolani e Barbaro ergono la resistenza della scrittura, come pratica non solo letteraria. Inglobando, nel termine “scrittura”, tutte le forme di arte che poi non sono altro che uno scrivere il e del mondo; fingendo alla Pessoa appunto una duplice natura per poterlo meglio abbracciare. Certo, non serve scrivere sulla vita, ci viene detto proprio in apertura: tutto il nostro sforzo è un urlare da soli (p. 12) contro il vento, opponendoci inutilmente alla necrosi dell’entropia: “Quello che facciamo sono solo gesti . . . due missioni – il segno e la custodia” (p. 18-19); “Un atto che non serve a nulla; come la poesia, come la gioia” (p. 24).

Mi sono soffermato sulle prime pagine, ma tutto il libro, in una tensione espressiva sospesa tra aforismi, prose più distese e veri e propri saggi, è densissimo di annotazioni molto “utili” per qualunque scrittore, tanto che, se mai un libro fu scritto per NON essere letto di seguito ma davvero a spizzichi e bocconi, poche pagine alla volta e con la penna in mano, è proprio questo.

Il titolo è suggestivo e abbastanza rivelatore: le tante occorrenze del lemma “distanza” sono in buona parte di Barbaro (ma per gli autori, valga quanto detto prima):

giungere, arrivare, unire, che poi è mescolare, perdere la cognizione del confine, non solo spaziale, ma tra dentro e fuori. E non solo la distanza (stellare...), viene messa sotto scacco, ma anche il limite dell’interiorità subisce una torsione, intenzionalmente (Barbaro p. 15).

Talvolta antiche scritture conservano una traccia nascosta che solo la distanza mette in luce, non come se si fosse depositata la polvere del tempo ma come se, al contrario, la polvere si alzasse ora, rivelando punti di maggiore verità e di esemplare chiarezza. (ivi)

Già, la comprensione. Per le prime volte fa la comparsa come problema . . . Non lo è, non essendoci mai comprensione alcuna, tutto essendo questione di approssimazione, di distanza e di farsi prossimo. Cosa facilissima a dirsi, mai a farsi. (Barbaro p. 120)

L’atto non compiuto, la possibilità non realizzata, l’allontanamento, la distanza, come chiavi di lettura di un’intera vita. Ma spingiamo agli estremi tutti gli elementi: allontanarsi, non si sa da cosa, non si sa verso dove. (Barbaro p. 140)

occorre rassegnarsi all’incomunicabilità, alla distanza, all’isolamento. (Barbaro p. 179)

E, parlando del quadro di un filosofo dice Ercolani:“È proprio una questione di distanza. Lo spettatore sceglie la moralità del ritratto accostandosi o scostandosi dalla tela di pochi centimetri, quasi fosse potere solo del suo occhio la capacità di scegliere il bene o il male, il sogno o il reale” (p. 194).

E poco oltre Barbaro: “E invece avremmo dovuto averne cura come della cosa più importante al mondo: l’interstizio, il tempo morto, la distanza, lo spazio tra una cosa e l’altra. Invece delle cose.” (p. 197)

Libro che può essere definito più di ogni altro di metaletteratura, L’arte della distanza ci insegna che la distanza fra noi e ogni opera artistica, pur incolmabile come la distanza fra di noi come singoli, esige un abitare quel limite e tentare un approccio ermeneutico che arricchisce il nostro precario essere umani.

Mauro Ferrari

(Intervento al festival letterario di Acqui terme, 2020)


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