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Giovanni Fierro, Intervista a Valeria Raimondi su Io no (ex-io)

(Intervista a cura di Giovanni Fierro, Fare Voci Gorizia, 2017)



Perché la scelta di un tema così delicato e problematico?


A dire il vero non è stata propriamente una scelta. Tutto è partito da un accadimento: la morte di una donna dopo anni di gravissimi disturbi alimentari. Sono stata colpita e ho iniziato a scrivere come fossi lei. Con la consapevolezza che lei non avrebbe mai potuto farlo, neppure prima. Inoltre la mia professione di infermiera e la vita stessa, mi hanno spesso coinvolto nei temi della “cura”.


Ho iniziato a scrivere giorno dopo giorno, con calma ma anche irregolarità, rendendomi conto solo in un secondo momento che non stavo mantenendo il focus su questa tematica: non parlavo più di un disturbo ma del mondo delle emozioni e relazioni con sé, il cibo, l’altro, l’immagine, il corpo, specchio questo di un’anima o di uno spirito “anoressici” nel senso di continuamente affamati e mai sfamati; mi

sono resa conto che lo stavo facendo tramite uno

strumento che conoscevo bene, quello della parola poetica giocata con un linguaggio e forme molto libere, in alcuni casi ricorrendo all’invettiva, al frammento, al flusso di coscienza, ad una prosa lirica. Ho scritto per due anni in libertà quasi totale pensando di non pubblicare nulla. Ho anche accolto nella raccolta scritti precedenti che avessero attinenza per contenuti e forme.


La tematica centrale (che dunque rappresenta un espediente) come giustamente osservi è delicata e problematica ma personalmente ho cercato di “inquadrarla” da un punto di vista un po’ distante, anche interiore, da un luogo di osservazione onirica. Ad un certo punto ho pensato che una situazione problematica così “patologica” ed estrema mi avrebbe consentito


di avere tra le mani un buon metro per misurare la presunta “normalità” (che peraltro non esiste!)



In queste pagine c’è una tensione narrativa importante. Di questo progetto poetico ne è il risultato o il punto di partenza?


Penso che la tensione narrativa sia, quasi inconsapevolmente, un risultato di questo progetto: anzi, la spinta narrativa rimane una tensione più che una soluzione definitiva.

Della narrazione infatti manca la storia, ma come per la narrazione si racconta un mondo. Ritengo che alla fine si tratti pur sempre di una silloge poetica, di un libro di poesie, poesie presentate sotto forma di frammenti, allusioni, giochi di parole, messe a fuoco istantanee sull’essere, che ho raggruppato, narrato e legato nei significati senza però fornire un lieto fine ma neppure un finale definitivo o una speranza. Qualcuno ha sentito però molta tensione vitale nella raccolta e questo non mi stupisce: questa tensione è la mia e non della protagonista.


Elementi che mostrano una struttura narrativa sono forse quelli che chiamerei Canti, le sei sezioni (sette con la sezione Sogni) che ordinano questo caos allucinato. Nel canto Speranza d’Essere, dedicato alla parola poetica, colloco la zona franca del poter dire, ossia il mio spazio di autrice. Tutta la raccolta è scritta in prima persona, eccetto questo capitolo dove io, che sono autrice e non detengo alcun diritto, posso solo dire... e allora chiedo aiuto e respiro alla parola.


L’altro elemento che indica una tensione narrativa, come l’editore Cardellini fa notare, è la caratteristica di Corpus Poetico organico dove l’organismo è piuttosto mostruoso ma legittimato ad essere narrato. Un riscatto esistenziale.



Pagina dopo pagina l’impressione è che la radice del libro sia un continuo ascoltare e che questo sia il primo passo per dire.


Ascoltare serve a dire qualcosa anche distanti dalla propria voce. La poesia nasce dalla vita ma si discosta anche un po’ da essa. Certo il poeta deve stare dentro la Vita, ma io ritengo debba starne leggermente ai confini, in un paese vicino dove si parla una lingua simile, ma con pause e inflessioni diverse e parole più aderenti a origini precedenti, più includenti e universali, nella zona franca del poter dire. E allora, proprio per questo, deve crollare l’alibi di essere un noi diverso e distante dagli altri.


I poeti possono farsi antenne: annusare l’aria, captare, affinare la sensibilità, accogliere, far abitare e poi trasmettere così da poter parlare di qualsiasi cosa, in poesia. Qualcosa che ci riguardi direttamente oppure no, perché comunque, ci riguarda.


La parola è importante. In questo caso, nell’affrontare questo tema e questa problematica, quale è stata la ‘sfida’ dell’usare la poesia per raccontarla?


Si è trattato di una sfida ma me ne sono accorta solo durante il percorso. Niente è stato all’inizio deciso. Sono anche andata molto in crisi: non volendo e non potendo avere tra le mani precisi strumenti scientifici, ho pensato di non avere diritto di parlare di queste tematiche. Ma sapendo di avere a disposizione lo strumento della parola poetica mi sono consentita la libertà che la poesia permette (a patto di essere onesti).


Infatti non ho scritto sull’anoressia, bensì sulle emozioni, sulla fame di amore, e non ho scritto un racconto, una relazione, un saggio, ma un libro di poesie o che nell’insieme fosse poetico, dove la parola provenisse dall’inconscio, trasfigurandosi, giocando sulle ambivalenze di segno e seme, con un continuo effetto di antitesi corpo/anima, vita/morte, ascesi/caduta, io/l’altro...



A livello sociale, e quindi del nostro presente, il tema da te affrontato che impatto ha? Che idea ti sei fatta?


Nel sociale il tema è così importante che, è una mia opinione, la radice o una delle radici del disturbo alimentare è spesso la stessa della dipendenza affettiva, dei disturbi ossessivi, delle depressioni anche latenti, disturbi che pure stanno alla base della violenza e dell’idea dell’altro come territorio di conquista. Ma io sono una poetessa, quindi non entrerò nel merito!


Certo sono un’infermiera, sono stata figlia, sono madre, ho avuto contatti con tante persone, vivo in contesti sociali aggreganti, ho una mia passione per le associazioni e l’indagine psicologica.

Quindi sono attenta alle relazioni e mi pare che mai come oggi subiamo e produciamo una distorsione nella relazione con noi stessi, con gli altri, con i territori in cui viviamo. Siamo tutti piuttosto malati perché i bisogni fondamentali rimangono sempre gli stessi nel tempo e per ogni individuo: essere accolti, amati, considerati, non sentirsi soli, agire e essere un po’ in pace.


Certo questa raccolta ha anche preso una strada sua: nel 2015 viene presentata a Venezia dalla psichiatra e studiosa dottoressa Giuliana Grando, fondatrice dei gruppi ABA e utilizzata dalle tirocinanti dei corsi. Inoltre nelle varie presentazioni ho avuto occasione di avere reazioni e riscontri da parte di madri o figlie, di essere abbracciata, di essermi emozionata, e questo mi ha tranquillizzata molto circa il rispetto e la dignità della parola, che in questo caso non poteva essere superficiale o neutra o compiacente.



A lettura finita mi viene spontaneo chiederti: quant’è difficile ricostruire una propria identità, come si fa?


Non so rispondere a questa domanda se si intende per identità quella persa nella frantumazione dell’Io, cosa di cui parlo in parte nel mio libro. Perché appunto l’intento non è quello di fornire soluzioni.

Tuttavia visto che sono piuttosto attiva socialmente, penso che ci vorrebbe un altro modo di vivere, ma anche di percepirsi. Qualcosa che sia una vita che ci somigli: andiamo troppo lontano da noi, ci boicottiamo, dobbiamo essere pronti, riusciti, veloci, aderenti, sul pezzo. Ma intanto andiamo a pezzi.

Apro una parentesi per dire che anche lo scenario della poesia contemporanea risponde a questa involuzione, chiede di omologarsi, chiede e vuole immediatezza, sintesi, performance, chiede di buttarsi tutti sul fuori, di piacere, di sedurre anche.

Invece la poesia, posso sbagliarmi, ha bisogno di altri tempi, anche lenti, di un altro stato. Se spesso uso il noi, mi scuso. Semplicemente credo ci si possa salvare solo insieme.


Dalla prefazione di Alberto Mori:


“Si tratta dunque di una rottura transitiva ed in transizione del e nel movimento. Andare dall’altra parte della vita attraversandola con il suo spostamento. La sua diversità”.




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