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Francesco Tarquini, su Città in miniatura

La nuova antologia di Alessio Brandolini, ed. Fili d'aquilone



Nel recensire alcuni anni fa Nello sguardo del lupo di Alessio Brandolini accennavo a “una compatta architettura figurale”, una tessitura per immagini che alla lettura di Città in miniatura, seconda antologia del poeta romano, si mostra con chiarezza come elemento fondante di tutta la sua opera.

Recentemente pubblicato dalla casa editrice Fili d’Aquilone -creata e diretta dallo stesso Brandolini insieme alla omonima rivista online- e arricchito dalla prefazione del poeta argentino Daniel Samoilovich, Città in miniatura accoglie 80 testi dal 2004 al 2020, tratti da Poesie della terra 2004, Il male inconsapevole 2005, Mappe colombiane 2007, Tevere in fiamme, premio Sandro Penna 2008, Il fiume nel mare 2010, Nello sguardo del lupo 2014, Il volto e il viaggio 2017, e infine alcuni inediti da Il lato oscuro della purezza 2020, di imminente pubblicazione con il titolo Il mio cuore è una grancassa.

Una precedente antologia, Il futuro è un campo incolto 2016, comprende invece 130 testi fra i quali vengono largamente rappresentati anche i primi due libri di Brandolini, L’alba a Piazza Navona del 1992, premio Montale per l’inedito, e Divisori orientali del 2002, premio Alfonso Gatto opera prima.

Una scelta ristretta, dunque, quella operata dall’autore in Città in miniatura, come a marcare una linea preferenziale nel proprio percorso, una più rigorosa autoidentificazione; frutto della quale è un libro “nuovo”, sia perché alcuni testi vi compaiono in forma variata e in diverso ordine dalla loro prima pubblicazione, sia perché la consistente presenza di inediti che formano la parte conclusiva del libro sembra illuminare i testi precedenti come in una scrittura che derivi da una costante auto- rilettura.

Credo perciò opportuno, pur tenendo conto della diacronia secondo la quale si articola la scelta testuale, privilegiare una lettura sincronica, considerando Città in miniatura non soltanto come riassuntiva testimonianza di un percorso ma anzitutto come luogo in cui l’autore filtra e mette a prova acquisizioni tematiche e formali onde proseguire da un rinnovato punto di partenza.


“Fili di rame / intrecciati nell’aria / riscaldano le foglie / bucano l’erba / i grossi petali / dei curvi girasoli / sfaldano il legno / nodoso degli ulivi”. Agisce nella poesia di Brandolini una immaginazione dello spazio che si esprime nel legame con la terra, elemento materiale e al tempo stesso deposito di densità simbolica. Terra identificata in prima istanza nel podere paterno, origine e sede di una cultura che il poeta, saldamente “seduto / la schiena contro il legno / spianato del castagno” eredita e che vorrebbe perpetuare. Essere sulla terra è una certezza, il sicuro possesso di una radice: “da qui vedo il paese, in alto sulla destra / lo stesso che ha scolpito questo cuore”. Solida realtà fisica, spazio protetto che si estende e raccoglie attorno a una figura di padre pudicamente sfumata e tuttavia ben presente, “questo volto / dolce e tranquillo / che si ricostruisce da solo / quando provo a raschiarlo / dalle pareti / arcaiche della mente.”. Figura paterna evocata piuttosto che mostrata, colta come obliquamente: “Nelle tue mani / c’è un sole / non troppo luminoso / ma chiaro e necessario / che calmo si addormenta / nella sua luce opaca”.

L’introiezione della figura paterna è il centro da cui si irradia il legame con la terra, che trova specifici modi di espressione nell’attitudine del poeta a descrivere la materia in un fluire di immagini che distillano e mescolano visioni e ricordi: “La musica del giardino / oggi scolora / per via di questo sole / impiccato tra i rami”; “Col becco l’usignolo indica un campo incendiato, / mani di tagli. L’acqua i fiori il vento i lupi la levità / delle foglie, delle placide nubi che strappano chiodi”.

“Rappresentazione in un frammento di tempo di un complesso intellettuale ed emotivo” come la definisce Ezra Pound, l’immagine poetica non sorge spontaneamente da un substrato inconsapevole ma si forma a partire da un atto cosciente: l’atto che cattura e congela l’attimo strappandolo al suo essere fugace, alla sua soggezione al tempo, attraverso un potere di metamorfosi per cui la parola poetica disfa l’oggetto per tesserne un altro; se il sole è impiccato fra i rami, se le nubi strappano chiodi è appunto perché “la parola disfa le foglie / tesse abilmente / un manto di germogli”. Un potere di metamorfosi che trova del resto conferma nel fondamento affermato dall’autore stesso: “Il terreno buono non è il tremore di lama / che ferma i pesci oscillanti nella luce, steso / allenato dalle mutazioni delle forme”. E questo principio di mutazione agisce su un passaggio continuo fra i diversi piani della materia, dal vivente al non vivente, fin nello slittamento antropomorfico di fenomeni naturali, per mezzo del quale il poeta coglie l’ora panica di una Natura misteriosa dove “i fichi hanno le dita larghe / le loro foglie sorreggono l’aria / calda di giugno / e le vene scoppiano di gioia”, dove “i muscoli delle stelle / s’ingorgano di luce”. Lo spazio stesso finisce per venire assorbito in quello della parola e a identificarsi con questo, “così lo spazio bianco non finisce / nel pozzo dell’inchiostro, prova / ad allungarsi verso il meridione / a infilare i sogni nelle tasche del vento”.

Infilare i sogni nelle tasche del vento. Se il sogno è una presenza nella poesia di Brandolini, il suo spazio è da ricercare non tanto nel sonno notturno ma in quello stato oltre la veglia e oltre il sogno che ha il nome di “rêverie”: lo stato in cui la mente prende le distanze dal reale e lo miniaturizza –come scrive Gaston Bachelard nella Poetica dello spazio-, appunto congelandone nell’attimo la totalità. Agisce su questa via “la strategia del sogno, fuori dallo spazio / usuale, presa all’arpione, sottratta al buio”; strategia di un “corpo che non dorme/ ma si scortica nel sogno”. Da questo corpo che si scortica, da questa strategia sottratta al buio e al di fuori dello spazio usuale nascono, suggerisce l’autore, le immagini della poesia.


La terra è dunque l’elemento primario nell’opera del poeta romano, e a questo proposito si può parlare di “terredad”, secondo il titolo di un libro del poeta venezuelano Eugenio Montejo da lui tradotto. “Terredad” non tanto come realizzazione di vita armoniosa quanto come permanente sfida, insita nella tensione oppositiva della coppia campagna vs città, nel trovarsi ad andare e venire da quest’ultima al paese natale; senza fermarsi, ristare, cedere al richiamo che viene dalla terra e al tempo stesso dall’interno dell’io come un sommesso rimprovero per un nostos che non sa e non può farsi definitivo. “Due parole per l’ottantesimo / compleanno, la terra in sonno e partendo non basta / un abbraccio. Radici vorremmo portarci dietro / le fibre della nostra specie. Il buio curva gli ulivi / assorbe i frammenti di luce tirando calci alla ghiaia”.

Versi dai quali traspare una melanconia peraltro già incisa nel primo verso da Poesie della terra del 2004 che apre l’antologia, “E’ come se fossi arrivato troppo tardi”; e altrove, “è come se dovessi ricominciare / tutto dall’inizio, dai primi / stentati passi.”. Versi che dichiarano un’inquietudine del tempo: tempo della vita personale e tempo della Storia, in cui il passato è coperto da un velo, “è la parte celata / della luna…. /… un luogo di alberi / impiccati, di un vento senza strade”. Lotta contro il tempo appare di frequente lo stesso attaccamento alla terra cui reca alimento una sapienza contadina che al poeta deriva dal padre, con la coscienza di come sia il contatto stesso della mano operosa a dar vita alle qualità dormienti nelle cose. La coscienza che “con la zappa fino al tramonto” lo tiene “ad accarezzare la terra / intorno al tronco / a divorarla con gli occhi”, ben consapevole che il ramo storto “è il solo che resiste”, che “il ramo goffo e sghembo / offre sempre il suo frutto”; ben accorto quando è il momento di “scavare / un fossato di scolo / un pozzo / per l’acqua piovana / mettere il palo dritto / per sostenere / il giovane albicocco / e il tempo che passa”, e quando è il “tempo di potare a corto.

Dicevo di una opposizione città vs campagna, e in proposito credo non irrilevante sottolineare come in questo libro la presenza della città venga ridotta all’osso sia rispetto al complesso dell’opera di Brandolini sia alla precedente antologia, come se si fosse operata una riduzione del tema ai suoi aspetti più oscuri. Sembra qui volatilizzarsi quella città amata e contemplata che il poeta evoca in tanta parte del suo lavoro, quella Roma di architetture ed acque che si fa teatro di sentimenti, per lasciar emergere in suo luogo la città incattivita che “ci rovina addosso…”, quella dei “conflitti sul lavoro con le scimmie ammaestrate / i pugni sullo stomaco dati e ricevuti / la manciata di chiodi che segnano il percorso / gli alberi strappati alla terra, le menti telecomandate”.

L’andare e venire del poeta romano fra due poli spaziali si inscrive dunque in un itinerario poetico in bilico tra armonia e dissonanza, volto alla ricerca di un più intimo e sicuro luogo di appartenenza; un punto stabile nello spazio e nel tempo, una definizione di sé in un presente continuo che raccolga il passato e si radichi nel futuro al punto di render possibili “futuri ricordi”. Come annunciata da fantasie di riduzione –“vivere in una quercia cava”, “farsi più piccoli / per dormire nei nidi degli uccelli”-, si afferma così la rappresentazione metaforica di quel punto stabile; appunto la città in miniatura del titolo, quella che con la moglie il poeta costruiva per i figli bambini e nella quale immagina di abitare: “isolato in una città in miniatura, quasi invisibile, come quelle che costruivi con tasselli di legno con i tuoi figli e l’armonia a portata di mano”, scrive in uno dei brani di prosa che si mescolano ai testi in versi nell’ultima sezione dell’antologia. La città in miniatura che, smontata, sopravvive come in letargo, “tasselli di legno chiaro / salvaguardati da oltre vent’anni / in fondo alla casetta degli attrezzi / nel secchio rosso, giù, accanto ai due noci / dove innalzammo una rudimentale latrina”.

Il gioco antico attraversa dunque il tempo dando vita a una potente immagine di intimità che fin dal titolo imprime sul libro il proprio marchio; e attorno alla quale pare condensarsi l’attesa che in uno spazio identitario all’interno di quel più ampio spazio identitario che è la terra paterna sia finalmente possibile far rivivere la città in miniatura dell’antico gioco per farsene abitatore. Come scrive Gaston Bachelard,“nella miniatura i valori si condensano e si arricchiscono….. nei giardini del minuscolo, il poeta conosce il seme dei fiori”.


Insieme a questa pulsione miniaturizzante Brandolini nutre una avidità di spazi, vive il sogno di un “viaggio / nell’ansia della luce / nello scavo ostinato / di una mappa segreta”; una mappa sulla quale sono tracciati insieme l’itinerario verso altri mondi e l’espandersi del discorso poetico. Così dalla terra paterna l’orizzonte spaziale si amplia nell’incontro con l’America Latina; quell’America Latina alla quale egli si lega con un’intensa attività di traduttore ed editore di poesia, avendone assorbito la lingua e la cultura, avendo stretto complicità e amicizie, essendosi abbandonato all’incanto di nuovi paesaggi in abbaglianti accensioni verbali non derivanti dall’estetismo della contemplazione ma piuttosto da una speciale appropriazione introiettiva: “La flessuosità della palma / si riflette nei passi: / sugli occhi strofina la notte / sulla pelle spalma il suo miele”, scrive in Mappe colombiane. Il viaggio è il sentiero che lo porta a una larga apertura all’alterità, crescente nel corso della sua poesia. Non bastano infatti le suggestioni di una bellezza straniera a chiudergli gli occhi sulla violenza degli uomini che costituisce la storia del paese di Álvaro Mutis e di Gabriel García Márquez e nella quale si riassume la storia di tutto il subcontinente.

“Restano le pulsioni / il sangue della foresta / che ora scorre veloce / qui, in Sudamerica”, scrive Brandolini, portandosi dentro come parte di sé, fattasi materia della sua poesia, quella dilatazione che il viaggio ha operato sul campo ai margini di un paese dei Castelli Romani verso una più ampia e comprensiva idea dell’essere nel mondo: nella quale è definitivamente entrata la visione dei “corpi stesi, martoriati / dalle rovine dei palazzi abbattuti dalle bombe”, come scriverà nel Tevere in fiamme.


Se fra i quattro elementi del macrocosmo naturale la terra è per Brandolini sostanza madre in cui trovare una reiterata conferma di radici, nella sua poesia l’acqua ostenta il lato oscuro della propria ambivalenza simbolica, dall’annuncio di un Tevere in fiamme al tema della morte per acqua evocato come in una risonanza del poema eliotiano, amplificazione che sostituisce al marinaio fenicio pur sempre dotato di fronte al mondo di un nome e di un’identità la massa anonima dei morti inconsapevoli. Il mare e il regno dei morti sono la stessa cosa”, scriveva nel terzo secolo avanti Cristo il greco Posidippo di Pella; gli fanno eco come nella coscienza di una storia ininterrotta i versi di Brandolini, “penso al corteo dei morti / al dolore che affonda il mare”, “il mare è vernice nera / e i morti la usano per scrivere a casa”. E’ il mare dei migranti, acqua mortale, stigma del nostro tempo.

Così da un capo all’altro di Città in miniatura si chiamano fra loro in un discorso ininterrotto i segnali di una lucida consapevolezza del male: non già Male metafisico, ma frutto di una umana devastazione del concetto di umanità. “Torno da un lungo viaggio / senza essermi spostato da qui” –scrive Brandolini in uno dei più recenti inediti- “Torno da un lungo viaggio, ho visto cose / atroci e gli incubi mi pesteranno a lungo”. Non esiste un possibile rifugio dalla coscienza del male, e come in contrapposizione a quella rêverie di intimità dalla quale scaturisce la città –la casa?- in miniatura, il poeta si presta e si espone a dar voce all’ansia del nostro essere nella Storia, sapendo che “la poesia non è la forma che salva”; e la sua voce è guidata, al di là di un possibile ripiegamento su di sé del discorso poetico, da una empatia profonda:“Perché si sono nascosti / tutti? Chiamo e nessuno risponde”; “Temo per l’anima dell’uomo / per la nostra ombra invisibile / smarrita o prigioniera”.


Due linee attraversano la poesia di Alessio Brandolini, l’una tendente alla lacerazione, allo strappo, l’altra alla ricucitura e alla pacificazione. Due linee in conflitto la cui armonizzazione sembra realizzarsi in una figura in cui con grande pienezza si realizza il potere metamorfosante dell’immagine. Annunciandosi dapprima come semplice oggetto di metafora, “sono un cucciolo di lupo / in cerca di affetto, in cerca di una madre” p. 62, il lupo viene a stabilirsi nell’universo figurale di Brandolini secondo quel principio di “mutazione delle forme” che appunto dal libro del 2014 Nello sguardo del lupo – libro cruciale a mio avviso - irradia la sua azione su tutta l’opera del poeta romano.

Il lupo non è qui la belva dei terrori ancestrali, ma un animale disarmato al punto di poter essere “sbranato dall’agnello” -come dice un testo non presente nell’antologia-, reso acuto e sagace dal rifiuto e dall’isolamento del quale è tradizionale vittima; corre, per così dire, attraversando l’opera di Brandolini in libri diversi, si nasconde e osserva, scruta, patisce, e la sua forma va mutando in uno scambio fra l’animale e l’uomo, fra l’uomo e l’animale, fra il lupo e l’io poetico che gli si accosta fino all’identificazione; la cui concretezza è resa con icastica evidenza in tante immagini disseminate nel libro d’origine e non tutte qui incluse, come “mi scorgo nel corpo del lupo”, “ritrarsi nella pelle del lupo per conoscere / e spaventarsi”, e numerose altre.

Se da giovane è già capace di seguire la traiettoria dello sguardo degli altri animali, dice la scienza, nella maturità il lupo arriva a leggere negli occhi dell’uomo: vale a dire a incrociarne lo sguardo. Il lupo dunque “vede” l’uomo, e riesce a vederlo “dentro” lo sguardo, così come vede dentro la notte, portatore com’è di una conoscenza che viene dall’ombra.

“Devi essere aperto / come una ferita, / perché il vero nome delle cose / è nascosto”, così i versi dello sloveno Kajetan Kovič, posti a esergo. E da essi Brandolini raccoglie amplificandolo il dettato profondo: il poeta è nello sguardo del lupo, oggetto del suo sguardo; e al tempo stesso guarda attraverso quello sguardo, anzitutto guardando in sé stesso,“essere un altro per percepirsi a fondo”. Ma non è soltanto una più completa percezione di sé quella che il poeta-lupo vuole attingere. Il sé si sdoppia nell’altro da sé, fra io e tu, fra un io e un io distaccato che chiama “da un altro pianeta”; nel riconoscimento dell’irriducibile incertezza dell’essere umano, dell’eterno binomio vita/morte col suo carico di dolore. Tutto questo il poeta vede dentro e attraverso “lo sguardo del lupo aperto come una ferita”. Ferita come irrinunciabile emblema di una conoscenza dolorosa, acquisita scavando e scavando nella poesia come “nella viva carne dell’anima”, nel tentativo di ricomporre l’equilibrio incerto della speranza. “Si torna comunque a sperare in giorni / non in conflitto con se stessi, né con il mondo / in calmi movimenti, senza vittime né eroi / a strappare le ortiche cresciute nella casa / nelle strade e nei sentieri che conducono al paese”.

Su quelle strade, su quei sentieri si possono pronunciare ancora una volta le parole “nello sguardo del lupo calmo proseguo a quattro zampe”.















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