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Eleonora Bellini, La ginestra. Estemporanea lettura di viaggio del canto leopardiano

La viaggiatrice che, andando verso Sud, imbocca l'autostrada Caserta – Salerno che scorre nell'ariosa piana costellata di paesi viene inondata di luce aperta e incontra il cordiale fresco sorriso dei pini marittimi, lo sventolio dei fiori d'oleandro, la curiosa massa del "vulcano buono", intelligente artificio architettonico di Renzo Piano.

Tutto così rassicurante e accogliente che, quando scorge nelle campagne lontane pennacchi di fumo nero e trascorre veloce accanto all'ampia ferita aperta della frana di Sarno, se già non è informata di queste dolorose piaghe, subito ne distoglie lo sguardo e l'attenzione che, invece, sono irresistibilmente attratti, alla sua destra, dal signore dei luoghi, colui che illumina e arde (e distrugge), il formidabil monte sterminator Vesevo. E la grande poesia, come sempre, ritorna, consola, si arrampica sul sedile libero, è la compagna di viaggio più gradita.

Giacomo Leopardi, quando scrisse La ginestra o il fiore del deserto era ospite di Antonio Ranieri, suo amico e salvatore, nella villa del cognato di lui, Giuseppe Ferrigni, posta sulla collina dei Camaldoli di Torre del Greco, tra il Vesuvio e il mare.

E lo stupefacente monte dal profilo molto severo e un po' curioso (la sua sagoma non potrebbe forse somigliare al copricapo di Pulcinella, solo un po' schiacciato?) dominava i suoi giorni, i suoi pensieri.

Ci vogliono modestia e coraggio insieme per accarezzare, abitare, rallegrare luoghi deserti, morti, abbandonati, che si tratti delle campagne e dei ruderi romani o che si tratti della groppa scontrosa e oscura del vulcano; l'odorata ginestra contenta dei deserti li possiede entrambi, constata Giacomo. Per questo è il fior gentile che il deserto consola.

Ma ce ne vogliono, di chiari fioriti sorrisi e di dolci profumi, per consolare i viventi. La ginestra buona, gentilezza in forma di umile fiore, dimostra, per contrasto, che nulla vi è di razionale e di umano nella natura. Non è capace d'amore, la natura. E gli esseri umani, che si vantano e si illudono di valere più di sassi, erbe, alberi, fiori, rocce, ruscelli, animali piccoli e grandi, s'ingannano. Ogni movimento naturale, pur minimo nell'economia dell'universo, perfino trascurabile nell'immensa e infinita sordità dei mondi, può annichilare in tutto il genere umano. Eppure c'è chi si ostina a predicare che l'uomo è al centro dell'universo, che la persona umana sta al sommo delle preoccupazioni di una divinità; ma perché poi quest'ultima si rivela più sorda e muta delle colate di lava sulla schiena del monte? C'è di che indignarsi. E Giacomo si indigna, con versi altissimi, i suoi ultimi.

Giacomo conosce della parola poetica ogni nota, ogni scansione, ogni sospensione, ogni diapason, ogni murmure. I Canti lo testimoniano, quasi due secoli dopo la loro composizione, ad ogni lettore e forse più di tutti lo testimonia questo canto, così lirico e così filosofico insieme. Perché Giacomo è anche filosofo. Acutissimo e dolente. Un filosofo capace di esprimersi (anche) in versi.

Il nuovo secolo, l'Ottocento romantico e spiritualista, fiabesco e tonante, è tornato al pargoleggiar dei tempi bui, all'oscuramento della ragione a favore della superstizione. Se dal Rinascimento in poi, fino all'Illuminismo, il percorso del pensiero umano si era svolto nel senso del progredire della ragione, ora, rimprovera Giacomo al secolo che è suo: tu vòlti indietro i passi, del ritornar ti vanti [...] libertà vai sognando, e servo a un tempo vuoi di novo il pensiero [...] così ti spiacque il vero [...] per questo il tergo rivolgesti al lume che il fe' palese.

A chi volge le spalle alla ragione che cosa si può opporre? Solo la disvelata realtà, la chiara razionalità, la coraggiosa verità, risponde Giacomo. Non è forte, né saggio, chi si ostina a predicare l'umanità trionfante, chi vuole convincersi della supremazia dell'uomo sulla natura, chi è consumatore del mondo, delle sue risorse, chi distrugge i viventi dei due regni vegetale ed animale che ritiene inferiori (e che tuttavia partecipano della nostra comune sofferenza, cfr. Zibaldone, 4175, 4176).

La natura è là, ignara delle generazioni umane che si susseguono, fragili ed oscure sul pianeta solitario che chiamiamo terra. Ignara dei loro patimenti e dei loro affanni. Verità, intelligenza, volontà di saggezza vorrebbero che l'umana compagnia, il genere umano tutto unisse le proprie forze per far fronte contro la crudeltà, la potenza, l'ineluttabilità degli eventi naturali.

Il saggio infatti tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, si adopera per quell'alleanza degli esseri intelligenti contro la natura che, già teorizzata dal filosofo greco Ierocle, uno stoico che descriveva la vita umana come una continua guerra contro la natura e il caso, aveva fatto riflettere a lungo Giacomo, che l'aveva annotata nello Zibaldone (4226-4227) e qui la ribadisce ancora una volta con altissimi versi.

Non si sfugge al pensiero. Il pensiero cattura e scava. Così quando Giacomo la notte siede a contemplare il purissimo azzurro nel quale fiammeggiano le stelle, il mare che le rispecchia mentre attorno tremano le scintille delle tremule, piccole luci accese dagli umani, gli si fa chiara l'immensità dei mondi che popolano l'universo ignoto ed infinito. Allora, nel considerare il genere umano, la sua stoltezza e la sua boria, Giacomo non sa dire se in lui il riso o la pietà prevale.

E ricorda l'eruzione del Vesuvio avvenuta nell'anno 79 d. C., quella che distrusse Pompei, Ercolano, Stabia, Oplontis e cambiò la morfologia del vulcano. Così come un pomo caduto dall'albero può distruggere un'ampia comunità di formiche e tutte le provviste da loro faticosamente raccolte, tutto un popolosissimo mondo, così l'utero tonante della bruta forza del vulcano (e l'uso del termine utero la dice lunga sulla cieca, inesorabile potenza della natura) ha potuto devastare comunità umane, ignare o dimentiche del pericolo, chiuse nelle loro illusorie ricchezze, stordite dall'eco dei trionfi, illuse di piaceri, perché non ha natura al seme dell'uom più stima o cura che alla formica.

Giacomo sa che ancora il vulcano fa paura, che spesso il contadino veglia la notte esplorandone le pendici, il corso del temuto bollor, e non esita a fuggire se la minaccia gli si fa più concreta. Sa che da poco meno di un secolo si è cominciato a scavare l'estinta Pompei, ma non saprebbe giudicare se per amore della scienza storica e della cultura antica oppure per avidità mercantile. Sa che mentre gli uomini si affannano e i regni mutano, le lingue si confondono, genti nuove passano e trascorrono, mentre le autoctone si arroccano fiere dei loro lignaggi, mentre l'uom di eternità si arroga il vanto, la natura rimane cieca, sorda, ignara di ogni umano moto, di ogni umana gloria.

Saggia più dell'uomo è la ginestra, umile pianta mite, che mai s'illuse di appartenere a una stirpe immortale, né per merito né per destino. Sotto la lava, ineluttabilmente, anche la ginestra soccomberà, piegherà alla fine quel capo che mai vigliaccamente aveva chinato servile nei confronti dell'oppressore, che mai aveva levato con forsennato orgoglio inver le stelle. Giacomo ha conosciuto la ginestra e ha compreso di esserle uguale.

La ginestra sorella, così umana nel ricordo dei versi leopardiani, rimane rincantucciata sul sedile accanto fino al casello di Mercato San Severino. Da lì si aprono le vie per la costiera d'Amalfi e per il Cilento. La viaggiatrice si dirige decisa verso Cilento, ad abbracciare tra Padula e Sapri un altro sogno: "schiavitù o socialismo". E' il sogno sconfitto di Carlo Pisacane i cui passi di rivoluzionario furono guidati, fino all'agguato del vallone del diavolo dove lucidamente si immolò, dalla medesima pietà, dal medesimo amore, dalla medesima solidarietà per gli esseri umani che di Giacomo cantore di ginestre avevano guidato la penna.


Eleonora Bellini



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