Manuel Cohen, Tutte le voci, Arcipelago Itaca, Osimo 2017
«Sapere e non dire. / È così che si dimentica. / Quel che viene detto / acquista forza. / Quel che non viene detto / tende alla non-esistenza». Così ci ricorda il poeta giapponese Issa, col suo dettato elementare e senza tempo. Si potrebbe dire, un ammonimento banale nella sua inconfutabile oggettività. Ma ci sono dei passaggi della Storia che meritano più attenzione, soprattutto da chi si spende con le parole della poesia, se non per “vocazione”, alla bellezza? all’etica? alla vita? Non importa. Di certo se si vuole restituire un po’ di senso all’insensatezza dell’esistente merita attenzione l’ultimo libro di Manuel Cohen, Tutte le voci, una intensa raccolta di poesie in forma di asciutto “poemetto” uscito per i tipi della giovane e intraprendente casa editrice marchigiana Arcipelago Itaca (Osimo, 2016) di Danilo Mandolini. Di chi sono “tutte le voci” cui allude il titolo? Si tratta di voci di persone del nostro presente o del passato a noi più prossimo o più remoto? Sì, sono voci di ogni tempo, e ogni luogo, voci-mondo, voci “senza suono” di esseri differenti e uguali, spesso di sanse papier o sanse terre. Ciò nondimeno, e non similmente, voci di vittime e carnefici, o, indifferentemente, di soldati e poeti, di minatori e cittadini sepolti sottoterra o sotto la cenere di Hiroshima o sotto i lapilli di Pompei. Voci dimenticate che da sotto la polvere, da sotto le macerie del tempo “gridano”, irrompono dal fondo della storia (soprattutto con la s minuscola). Voci di nomi noti o ignoti, nomi senza più storia. Ecco, sembra che Cohen, «nell’ombra di ogni storia» voglia fortemente «far riemergere i morti /come peso, misura, gloria», usando le parole di Paolo Volponi, messo in esergo all’inizio del poema – con Roberto Roversi che, inascoltato, segnala lo sprofondo: «Forse aprono voragini nel fondo / mare, dall’abisso cadono sul mondo» – come conferma di condivisione, partecipazione di altri corpi, altre menti, altri sogni, utopie, altro dolore, nel suo dire, nel suo fare. Oltre a ciò, del resto, il nostro autore pone sulla pagina un anti-coro che «incalza in corsivo», come precisa egli stesso, «aggiungendo peso al peso, voce alla voce», come controcanto alla liturgia – salmodia – del pensiero dominante, alla perpetua narrazione pervasiva e falsificante della realtà, di fatti senza più memoria. Per la non solo sintattica struttura – la forma – nevrotica e schizomorfa viene da pensare da subito a una partitura “lit-jazz”, osando con un neologismo à la page, o forse, spingendosi in un ambito esclusivamente musicale, un “raga-rock” in progress. Ma, più semplicemente, più credibilmente, è una sorta di atlante dei nomi, destini interrotti, frecce spezzate in volo, «realtà sconfitte o offese», che come eco che si rifrange sui fianchi di una valle riverbera all’infinito il balbettio – l’ecolalia – di chi, pur attento fino allo spasimo, non riesce a fare nulla, proprio per la raggelante lucidità cui è pervenuto. «Voci di discrimini / e frontiera / voci nella incerta inchiostratura / alla memoria deficitaria / infutura». Invero non può far più niente contro l’assurdo, la follia di una civiltà immemore, di una storia fatta dagli uomini cui egli stesso partecipa, appartiene. E il discorso non può che divenire sempre più frammentato, disconnesso, contro le sorti dell’umana civiltà, altro che magnifiche e progressive. Con il rischio ulteriore della insignificanza della parola quando perde il suo corpus, affrancata finalmente sulla pagina − hic et nunc − dalla com-passione. Al più, di tutto resta solo una scia, un soffio, un frullo, un battito d’ali nell’aria cupa e sempre più pesante del presente, nell’«irrimediabile notte» del nostro tempo. Un farfuglio, un lamento, un lontano grido – silenzioso – di dolore, dal fondo del buco nero dell’incombente nulla. Manuel Cohen lo sa: le voci dei morti per tornare vive, suono, devono essere nominate. Devono diventare fonemi di fuoco, lanciati nella cavea dalla scena «in cui il poeta è attore delle sue parole», come acutamente osserva Salvatore Ritrovato nella bella prefazione. Tutte le voci, da soli o in coro, esigono di essere cantate. Dette.
Gianni Iasimone