Romano Morelli, Quando delle cose ci rimane solo l'ombra
Approccio a “La vita impressa” di Ranieri Teti, Book Editore 2022
Per chi crede che il linguaggio sia un luogo privilegiato dove manteniamo accesa una luce sul nostro essere al mondo - nostro di noi, esseri umani, nel tempo-spazio che ci troviamo a dover sperimentare - la poesia de “La vita impressa” di Ranieri Teti è un incontro memorabile.
È una poesia densa, importante, estrema. Ed esigente, perché esige di essere letta con la stessa severa concentrazione con cui è stata composta. Imprescindibile per chi senta ancora battere dentro di sé, e voglia affrontarle, le questioni, nel frattempo diventate ultime, che abitano sapere, sensi e sogni dell’umanità occidentale. Una poesia che trascina in un abisso da capogiro, che apre al lettore perseverante la visione di un mondo improvvisamente altro dove emerge, delineato con lucidissima e dolente acribia, il viluppo di tutte le "ombre scisse", le "vedovanze e abdicate chimere, celibati di sensi", i "cimiteri di vie", nervi e tessuti che fanno il nostro attuale esistere.
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Quello che si percepisce immediatamente è come il mondo di Ranieri Teti sia tutto relazione, interdipendenze, incastri, rimandi, ritorni, insistenze: il testo si costruisce e si estende in una fitta, pervasiva ragnatela di congiunzioni, preposizioni, coordinate, relative, incisi, in un inseguirsi di evocazioni e richiami che ci rimbalzano attorno, s'intrecciano per riserrarsi a mano a mano che si procede. È un inoltrarsi in un folto d'echi, un saggiare, uno scavare a fondo sino a mettere a nudo, palpitanti e inermi, le radici delle nostre "vie interrotte sul vuoto", del nostro inconcluso "continuo esordio", dei nostri "passi infranti" verso quel laggiù scomparso eppur necessario, delle nostre "finzioni d'approdo", sotto una luce fatale che infine ci svela che non in un dove, ma sempre e solo in un come noi siamo stati.
Ogni componimento si presenta senza inizio canonico né con un punto fermo conclusivo, ma come un bagliore in un continuum di percezioni e riflessioni. È un rilanciare, uno svolgersi e riavvolgersi, un avvicinarsi, un sottrarsi e un riprendersi nel fluire carsico di fenomeni, cause, ipotesi, interrogazioni, in una fuga caleidoscopica di sinestesie e ossimori in cui si dice l'originaria gratuità e l'inespugnabile opacità del reale.
Il discorso, in un accanito, tormentato lavorio di frottage che percorre e ripercorre sottostanti segni invisibili, fa apparire, impressa, la traccia delle orme mute "che si innocua a vacuità" nelle nostre carte geografiche dove “la parola viaggio è un cartello che segnala uno sfarinarsi di strade, note di lontananza, ombre lente tra l’indomani e orizzonti, che mutano immemori, ossatura di terre incognite”, alludendo così all'unica, vera direzione: "sempre più distanti verso casa".
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Tutto ciò si sviluppa nel magma sconcertante di una sostanza linguistica (sintattica, semantica e sonora) che soggioga e trascina.
La struttura sonora (rime interne e sparse, allitterazioni, anafore, assonanze e consonanze, variazioni su tema) accompagna e sostiene costantemente lo svolgersi dei testi; una straordinaria sapienza semantica, un'acuta coscienza nelle scelte lessicali, una feconda, insistita, necessaria polisemia fanno balenare approcci inattesi, legami imprevisti, prospettive nascoste, in un proliferare di corrispondenze "che attraversa sdoppiamenti, che si moltiplicano in similitudini e nell’indefinibile”. Gli elementi della frase, poi, soggetti verbi avverbi aggettivi, forzati sino ai confini delle possibilità della loro natura, rilasciano una corrente di energia che ci trasporta sino ai margini dell'esplorabile, là dove sono le "zone di tracce cancellate", la "costa guardata dalla notte", "dove tornano a inabissarsi i viaggi notturni" "dentro una notte senza custodia".
Questa maestria, che è il maturo frutto linguistico di una lunga tensione esistenziale innervata nelle parole - "quelle dopo le nominazioni", "quelle che nascono dal fondo dove origina la ferita", "quelle per cui non c'è cosa" -, dirige il nostro sguardo, come stregato, tra le pieghe mobili dell’esistere, "nel moto delle sabbie tra le simmetrie degli ingranaggi": la vista si allarga sul lontano e oltre, e su noi che ci guardiamo interrogarci.
E mai c’è sospetto del tour de force, del pezzo di bravura, né la doccia fredda della costruzione intellettualistica: tutto è necessario, senza scorie, mero prodotto di una ricerca coraggiosa, dolorosa, ostinata.
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Ranieri Teti abolisce le apparenze (per usare un termine mallarmeano che non pare inappropriato per la sua poesia) portando allo scoperto l'ordito dove s'intersecano intenzioni e vita vissuta, attesa e impossibile, promesse mai fatte, tentate fughe e mutile nostalgie di luoghi disertati, in una dialettica irrisolvibile tra andare, essere, restare, perdersi "di faglia in faglia in tutti i passare, come si resta andando, tra le residue sponde delle cose, e poi tra le cose di un esserci senza restare". Si conosce così un'umanità che si scopre errante nella sua realtà infondata, nell’impossibilità di pensare il destino, di pensarsi in un destino: di fatto la separazione, lo strappo doloroso e insanabile tra noi e un destino. L'atlante con tutti i nomi per una terra assente si scompagina confuso davanti ai nostri occhi, pagine e mappe staccate tornano ad essere, nero su bianco, la testimonianza alta, il documento del nostro 'essere stati' e 'aver voluto', della nostra speranzosa inanità che ci costituisce, oggi, nel nostro essere. E "tutto ritorna nel pensiero, nel silenzio in cui ci destinano le ore quando si attardano intorno a qualcosa (...)".
Non più di viaggio si tratta dunque, ma di un andare che definisce una condizione, non tanto forse quella dell'emigrato, quanto quella del migrante per cui "tutto è solo nell'andare" per la "troppa terra" inesauribilmente vasta, e per il quale il ritorno non sarà tornare a un dove, ma riconoscersi in un come, nella condizione di chi ha casa nell'essere tra una partenza irredimibile e la faticosa inanità delle mete, stringendo tra le mani carte con percorsi, vie e frontiere "simili a uno spazio vuoto". Il viaggio di Ranieri Teti non è un andare-verso attraversando spazi né un ritorno-a, ma un'agnizione, il riconoscersi su una "terra forgiata dai passi", stupiti "dall'ultima orma di un salto dimenticato a mezz'aria", consci infine che "quello che resta del grido quando precipita il vento" sono i nostri "richiami che nascondono un silenzio": riconoscere l'enigma non cancella l'enigma, ma, al contrario, lo installa nel presente.
Non è nichilismo, questo di Ranieri Teti. È un reale strutturato dalla dialettica "tra finzione e desiderio", vissuto aggirandosi tra i fantasmi di un Tutto che si nutre del nostro bisogno, esplorato con accanimento nelle sue piranesiane interazioni tra attese, silenzi, echi e richiami, ripercorso per luoghi svuotati dove vigono assenze che gettano ancora la loro ombra - unico segno tangibile d’esistenza. Non è nichilismo, perché qualcosa rimane che non potrà mai essere cancellato, da cui non potremo liberarci: non le cose, ma “l’ombra delle cose”, perché, se le cose non sono più, noi sì, noi restiamo, e nella distanza tra cose e ombre ha luogo il nostro migrare, orfani, in un dramma che non è epistemologico né ontologico, ma esistenziale.
Non è nichilismo, dunque, ma, al contrario, è pietà, l’infinita pietà che in fin dei conti meritiamo.
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I luoghi
esistono luoghi che sono destinazioni opache,
cimiteri di vie sotto falso nome, fondamenta stra-
tificate in muri, epiloghi al vieto che appartengo-
no a varchi, disfacimenti, movimenti di mappe e
costruzioni di paesaggi, percorsi e scie di strade,
moti ancorati di ruote e scafi, e più in là nuvole
nei fondali, legni che galleggiano nelle cose dopo
cercando di trattenere qualcosa che fugge, in una
continua impressione di poca luce, un odore buio
a lungo inalato, l'inedito incontrato in una tenebra
illuminata per contrasto, naturale cammino nella
fugacità, nel terreno fragile del continuo esordio,
nella zona separata dove ha luogo la vastità entrata
nell'angolo, il suo scavo, il naufragato, il fiume che
continua ad abbattersi sulla foce
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Troppo, tutto rimane ancora da scoprire in quest’opera. Ma essa chiede non già l’estrazione di un senso, ma il consenso a una partenza verso noi stessi, la decisione di perdersi verso casa.
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