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Maurizio Casagrande rilegge Pasquale Di Palmo

Pasquale Di Palmo, Marine e altri sortilegi, Il Ponte del Sale, Rovigo 2006.


Già nel titolo, l’ultimo lavoro di Pasquale Di Palmo orienta il lettore nella direzione di un esercizio di esorcismo al fine di stornare il negativo della vita, non tanto mediante la sua negazione, ma piuttosto attraverso lo sforzo strenuo (di ascendenza filosofica più che religiosa: le filosofie orientali e le modalità attraverso le quali queste ultime sono state recepite in Occidente) di aderire alla condizione del “non essere” quale potrebbe rivelarsi lo stato di una pietra, di un sasso, o di una foglia che si converte in foglio, tutte metafore che ritornano con insistenza ossessiva nei versi di questa raccolta (ma pure delle precedenti) e come sembra suggerire la citazione dalla Cvetaeva in esergo alla seconda sezione («Non voglio morire. Voglio non essere…»): l’atto stesso di muovere qualche passo in una cornice di assoluta solitudine lungo la diga di Treporti-Cavallino, o su altri litorali nel cuore dell’inverno e dell’autunno, o perfino dell’estate, conferma che si tratta di un rito nel quale la marina viene ad essere il primo – forse il più potente, e secondo soltanto alla poesia – dei sortilegi cui l’autore, Orfeo moderno, si affida, alla maniera di Artaud e dei suoi sorts, usando le parole (o i luoghi) come «piccole ancore di salvezza» in virtù del potere magico che egli riconosce loro[1]. In altre circostanze le armi del poeta-sciamano si convertono in azioni compulsive quali scrivere al buio, magari in pieno luglio nel chiuso di uno studio[2], guidare l’auto di buon mattino senza una meta precisa[3], immaginare ed esprimere la propria condizione attraverso i termini stranianti della dissezione anatomica[4] o della cantieristica navale[5], oppure nel semplice atto di piantare un albero in giardino: «Voglio che sia un albero forte / e pieno di grandi foglie, senza nome, / alla cui ombra stendermi / un giorno per osservare, come Hopkins, / il disegno irregolare delle nuvole»[6], dove l’osservazione e la visione vengono a caricarsi, come in tutta la poesia di Di Palmo, di un valore catartico e terapeutico pari soltanto a quello della parola.

L’esorcismo del veneziano, però, ha di mira anche bersagli diversi dal generico disagio esistenziale, e decisamente più inquietanti: «l’ombra del demonio»[7], in primis, che sembra rivendicare i propri diritti sulla frazione di Ca’ Noghera ove hanno eletto dimora il poeta e la sua famiglia, e l’oscuro Angelo dell’abisso, il Distruttore, Abaddon/Apollion stando alla profezia dell’Apocalisse[8], l’uno e l’altro, forse, equivalenti simbolici dell’avversario più subdolo per il poeta, vale a dire la depressione. Né andrà trascurato un ulteriore elemento che l’autore ci mette fra le mani, nei testi e nell’esiguo apparato di note che li correda: quel «bambino di zucchero, piccolo come un mignolo» che viene ad assumere, secondo gli automatismi profondi dello scambio e del doppio, le fattezze del figlio appena nato del poeta[9] e che corrisponde – apprendiamo dalle note – all’icona del Bonzin Gesù ideato dalla scrittrice Costanza Caglià reclusa per anni in manicomio: una sorta di amuleto che proprio in ragione della sua insignificanza (un pugno di zucchero, con i tratti di un infante)[10] deve assolvere alla funzione di stornare il negativo, almeno nella risemantizzazione che Di Palmo sembra attribuirgli. Siamo in presenza, dunque, dell’intero catalogo di ossessioni del poeta veneziano che vanno da un sole lebbroso, o nero, o barbuto, a una Musa coi denti cariati ed affetta da alitosi[11], sino all’icona della follia, in piena coerenza con gli assunti di una poetica che è figlia legittima di Simbolismo e Surrealismo.

Ora l’Apocalisse, nei giorni in cui Di Palmo concepiva questa raccolta, aveva assunto le fattezze tremende della guerra nel Kosovo, l’ultima – in ordine di tempo – fra le piaghe apocalittiche che dal fondo dell’abisso erano tracimate sulle regioni balcaniche dopo il crollo del comunismo. Sull’onda di quei tragici fatti e stimolato altresì dalla lettura di un saggio d’inizio Ottocento sul trattamento degli annegati, Di Palmo ha trovato la quadratura del cerchio per Marine e altri sortilegi: gli annegati, tutti giovanissimi, quale metafora di una generazione perduta, smarrita e senza radici che finisce per pagare le colpe dei padri. La conferma viene dal distico seguente che chiude la seconda lirica nella prima sezione: «Il sole trapela a fior d’acqua / come il volto di un giovane annegato»[12], metafora che, oltre a chiudere in cerchio l’inizio con la fine, assolve alla funzione magica di accompagnare (favorendolo) il passaggio da uno stato ad un altro di esistenza (e coscienza) come negli antichi rituali di morte e rinascita[13].

Nonostante tutto ciò e per quanto stravolto nelle forme e nei modi, il canto del veneziano è da leggere come un inno alla vita, ma antinomicamente e per antifrasi continue, un canto d’amore che ha per oggetto in primo luogo la natura nelle fattezze del sole, del vento, del mare e delle nuvole, autentici “personaggi” nell’economia della raccolta; in seconda battuta, ma l’ordine si potrebbe tranquillamente invertire, vengono gli affetti familiari: il figlio Gabriele cui è dedicata la lirica di pagina 22 e la moglie che compare, trasfigurata, nelle prose della sezione Esercizi di esorcismo[14]; si potrebbe proseguire con gli amici, quelli che figurano nelle dediche esplicite in esergo ad un paio di liriche, e gli altri che non sono menzionati ma che fanno capolino in alcuni testi; e ancora i poeti, quelli in particolare che Di Palmo ha sempre considerato degni compagni di strada o maestri. La volontà di coltivare tali sodalizi, soprattutto nell’ambito familiare, è confermata da un endecasillabo che sembra uscito dal codice di un trovatore: «io perdermi vorrei come il falchetto»[15] sullo sfondo delle nuvole, delle scogliere e dell’azzurro dei cieli, dove la chiave del componimento si nasconde nel verbo all’infinito, vale a dire, ancora una volta, nella metafora della perdita di sé e dello smemoramento quale via alla liberazione dall’angoscia.

L’impressione d’insieme è pertanto quella di una poesia non solo unica, ma diversa da tutte le altre del presente o del passato e quasi “straniera” nel panorama di casa nostra, quanto a gusto e sensibilità. La ragione sta nel fatto che Di Palmo è venuto assimilando, anche in forza della sua attività di traduttore, le lezioni di Rimbaud, di Artaud, dei Surrealisti francesi, di Hopkins, Dylan Thomas (la citazione in esergo alla prima sezione del libro appartiene a lui, non a caso) e altri anglosassoni, di Mandel štam e Brodskij, perché il suo “campo di miele” – appropriandoci di una metafora che appartiene a Munaro – è quello. Anche Zanzotto, certo, o Sinisgalli, ma appunto Sinisgalli è straniero quanto lui alla nostra tradizione, nel senso che il suo testimone fino ad oggi l’hanno raccolto in pochissimi (e Di Palmo è fra questi). Tuttavia egli si mostra più che mai legato alla grande tradizione italiana anche in questa silloge. Si tratta, oltre che di Petrarca, di Dante, e non tanto quello della Commedia, bensì quello più criptico delle petrose: potremmo dire che con Marine Di Palmo è venuto tessendo la sua maniera petrosa (ma scevra da ogni manierismo). Certo, con libertà e originalità, e la “petrosità” andrà intesa, magari, nel senso di un processo di mineralizzazione interiore come via di salvezza.


Maurizio Casagrande


[1] L’argomento appartiene a Di Palmo medesimo che si esprimeva a questo modo, nel rendere ragione della propria poetica, in un’intervista rilasciata allo scrivente. Cfr. Pasquale Di Palmo, Diventare qualcosa di inanimato, un sasso ad esempio, una foglia, in Maurizio Casagrande, In un gorgo di fedeltà. Dialoghi con venti poeti italiani, Il Ponte del Sale, Rovigo 2006, p. 113. [2] «Scrivo di luglio al buio, nel mio studio, / una parola ogni tanto / facendola decantare, / vino acerbo al palato, / nel silenzio del cervello»: Pasquale Di Palmo, Scrivo di luglio al buio, nel mio studio, in Marine e altri sortilegi, Il Ponte del Sale, Rovigo 2006, p. 21. L’ultimo verso citato, di una lirica in cui predominano atmosfere allucinate alla Poe, fa eco ad un verso simile del Rebora di Viatico. [3] Cfr. Pasquale Di Palmo, Guidare lentamente lungo il dedalo e Ecco il sole lebbroso che dispensa, in Marine e altri sortilegi, cit. pp. 13 e 17. [4] Cfr. Pasquale Di Palmo, Avanti miei ossicini, ivi, p. 40. [5] Cfr. Pasquale Di Palmo, Ora emergi, vascello, ivi, p. 46. [6] Cfr. Pasquale Di Palmo, Per sentirmi vivo voglio piantare un albero, ivi, p. 37. [7] Cfr. Pasquale Di Palmo, Torno con l’ombra del demonio a fianco, ivi, p. 35. [8] Cfr. Pasquale Di Palmo, Oggi ho visto Abaddon, ivi, p. 23. [9] Cfr. Pasquale Di Palmo, Bambino di zucchero…, ivi, p. 58. [10] Vengono alla mente da una parte Perelà, l’omino di fumo di Palazzeschi, dall’altra il Cristo dei Vangeli, apparentemente in balia di poteri che lo sovrastano, mentre nella sostanza il rapporto di forze s’inverte. E perfino, pur se alla lontana, un personaggio di zucchero filato – Pollicino – la cui paternità è da ascrivere, oltre che alle fiabe, a due poeti veneti che Di Palmo conosce a fondo: Marco Munaro e Luciano Caniato. [11] Cfr. Pasquale Di Palmo, La Musa ha l’alitosi…, in Marine e altri sortilegi, cit. p. 52. [12] Cfr. Pasquale Di Palmo, Il cielo di gennaio è come il calco, in Marine e altri sortilegi, cit. p. 12. [13] Ma andrà segnalata anche la prosa di pagina 56 che chiude su simbologie analoghe: «Tu dormi con due monetine sugli occhi». [14] Ma anche nella lirica Hai denti di gelsomino, in Pasquale Di Palmo Marine e altri sortilegi, cit. p. 28. [15] Cfr. Pasquale Di Palmo, Se parlare alle nuvole, nel sole, in Marine e altri sortilegi, cit. p. 20.

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