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I gesti lievi di David La Mantia

David La Mantia, Gesti lievi. L’amore, se te ne accorgi, Prefazione di Marilina Giaquinta, pp. 122, 15,00, Il leggio Libreria Editrice, Chioggia 2022.



Se già non sono molti i poeti che avvertono un’autentica responsabilità per quanto scrivono, sono pochissimi quelli che pensano alla propria arte in funzione di questa responsabilità. Uno di questi è David La Mantia, che programmaticamente ha impostato la propria voce – come attesta l’esplicita dichiarazione riportata nel dialogo con Gabriela Fantato che chiude Gesti lievi e che ha come punto di partenza il catalogo degli oggetti convocati sulla pagina: “Cerco così di utilizzare un repertorio di immagini quasi sempre alternativo a gran parte della versificazione contemporanea” (p. 113); la distanza dal poetichese iperletterario è ribadita in più punti della raccolta: “Amo chi scrive male, in modo diseguale, chi non cerca la bella pagina” (p. 106); “Ho timore delle tamerici / e dei viburni, delle piante che trovi / solo nelle figurine Panini” (p. 104, dove non è casuale l’allusione a un Montale che, inaugurando la nuova poesia del Novecento in maggiore, deve tuttavia attraversare D’Annunzio. Che il problema non sia solo o non tanto quello di una scelta terminologica è del pari evidente; La Mantia evita le scelte pregiate dei “poeti laureati” e costruisce una poetica originalissima per spinte espressive e nuclei tematici, che sarebbe ben riduttivo costringere all’interno cornice della poesia civile.

Anche qui: non sono molti, in Italia, ad avere costruito una poetica con scarse o nulle tangenze con la tradizione aulica, ma (e fa tutta la differenza) facendoci ben avvertiti di una lingua comunque riconoscibilmente poetica, che supera anche quell’urgenza del dire estranea al problema stilistico, e che non ignora la tradizione ma ne fa un punto di partenza per frequentare nuovi territori. Territori che, precisiamo, non sono quelli della sperimentazione ludo linguistica (anche se un poeta sta sempre sperimentando), e che neppure sono affiancabili troppo da vicino a voci come Mauro Macario (più esplicitamente politico, ironico/sarcastico, provocatorio) o Claudio Pozzani (più surreale, teatrale). No: la voce di La Mantia è sempre piana, calcata sul parlato colloquiale, affabile e nei dintorni di una versificazione regolare per quanto libera. Il suo è un dire limpido, innervato di immagini programmaticamente inattese che riflettono la “vita vera . . . non il solito tramonto da postare” (p. 57). La sintassi attentamente calibrata contribuisce alla costruzione di una voce lontana da ogni retorica poeticante o banale melopea, ma anche aliena (proprio in virtù della citata imagery) da certa semplicità minimalista e diaristica. Questo, ça va sans dire, ne fa “un intruso, un clandestino / tra i versi che contano” (p. 46).

Che una qualche apocalisse si stia preparando all’orizzonte è ormai parte del sentire comune (e non sto riferendomi a banalità come al tramonto dell’Occidente); poco importa se si tratterà di una apocalissi nucleare, economica, ambientale, perché nel dubbio non ci stiamo precludendo alcuna via. Date queste premesse, la poesia di La Mantia appare scritta sul limitare della tragedia, con uno sguardo che appare spesso angelicato ma che per una volta tanto è risolutamente rivolto al futuro, anzi al futuro anteriore di un dopodomani che potrebbe aprire a una sperabile utopica rigenerazione. (Esempi per dopodomani è infatti il titolo della terza delle quattro sezioni). Il poeta non si sofferma cioè sul passato (le ragioni storiche che ci hanno condotto a questo punto), né sul presente della cronaca, anche se questa traspare ad esempio in alcuni testi sul covid (pp. 54, pp. 64): pensa direttamente al dopo, alla ricostruzione di “un mondo nuovo e distratto, un mondo di cose e di emozioni, non di parole e paure” (p. 103).

Il passaggio cruciale, indispensabile per il rinnovamento, è la ribellione (p. 14); non tanto per riproporre una improbabile innocenza edenica (mai recuperabile una volta perduta), quanto per proporre un “essere semplice nell’abito e nei gesti” (p. 19), per “amare la gramigna” (p. 21) e infine “riconoscere l’amore / dai gesti lievi” citati a titolo della raccolta. E anche il verso “Non assolverti, ma scrivi e basta” (p. 16), con i suoi sovratoni sereniani, richiama obliquamente strumenti umani da costruire e affinare.

Per questo, occorre al più presto approntare strumenti umani adeguati (quindi anche espressivi, creativi, poetici): il fine ultimo è ricominciare (lemma che ricorre esplicitamente con grande pregnanza a p. 64, 68), convivendo con gli errori ma anche – e questo ci sembra il nucleo più profondo e originale del pensiero di La Mantia – amando la nostra imperfezione, per “accettare che ci sia l’ortica“ (p. 32) e accogliere le impurità che ci fanno compiutamente umani.

Da questo punto di vista, come bene esplicita l’acuta prefazione, La Mantia è la propria poesia, e non in nome di una banale sincerità dell’artista, perché qui testimonia con la propria poesia un pensiero forte e scelte controcorrente sia dal punto di vista poetico che, soprattutto, etico. E, sul piano umano, si pone come exemplum di un nuovo modo di pensare, offrendosi sia come uomo che come poeta quasi come elemento sacrificale che propone rivoluzionarie ipotesi di cambiamento (“perdonate tutto e tutti / e sarete perdonati”, p. 30), valorizzando la bellezza delle cose semplici, senza ammiccare al crepuscolarismo: non si tratta infatti di un pis-aller, ma di mostrare come le supposte “piccole cose” (al limite di pessimo gusto, ma fuori di contesto estetico) siano quelle vere, autentiche, su cui costruire una nuova scala di valori. Le irruzioni della prima persona, e i frequentissimi imperativi hanno precisamente la funzione di esplicitare le proprie scelte personali:


La politicità di La Mantia, come emerge da questa raccolta tanto coerente con le proprie premesse etiche, non è un dato alieno anche se non esibito. Però è chiaro che questo poeta ha cose originali da dire, e ha trovato la chiave per farlo in poesia, che è cosa difficilissima. E quando la poesia sa farsi veicolo di valori etici positivi è politica, perché crea e rafforza l’idea di comunità tramite il linguaggio più potente a disposizione dell’uomo, cioè la poesia.


Mauro Ferrari




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