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Salvatore Ritrovato, La casa dei venti, Il Vicolo, Cesena 2018

Leggendo La casa dei venti di Salvatore Ritrovato, il lettore sarà colpito dalla pregnante presenza di due sentimenti essenziali, contrastanti eppure complementari. Da una parte si nota la percezione della precarietà di tutte le cose e la potenza invincibile della morte («da queste parti un giorno mi incontrerai. / Qui, un tumulo di terra slamato dalle rogge / […] Hic iacet confessa il vuoto in alto. / Qui termina il via vai»). L’esistenza intera si configura nelle poesie di Ritrovato (si veda Lasciando Grodek) come un male, sulla scorta di un filone poetico che vai dai lirici greci fino a Leopardi e Montale, analogo all’espiazione di una grave colpa («grave è la colpa di chi è nato»). Tale inevitabile senso di fine e di imminenza della catastrofe è ben espresso dal testo collocato in conclusione della raccolta, Sognando Omero, in cui il poeta mette in bocca al cantore cieco il proprio senso di amarezza nei confronti della vanità del tutto, che rischia di investire addirittura la poesia qualora essa non sia più oggetto dell’interesse degli uomini («chiedetemi ancora un verso!»); lo stesso timore è presente in Bagatelle di viaggio, in cui la poesia è vista in una condizione di inferiorità rispetto alla potenza della morte («servirà ancora la poesia/ dove nessuno lo raggiunge?»). Altrove, invece, alla poesia viene riconosciuto il merito di permettere all’io di scavare dentro se stesso («muove la penna come un lento aratro»): in Io è il sentimento mortale di queste pagine l’autore riprende l’immagine già usata da Seamus Heaney per una poesia che non si erge come militante, ma che permette all’uomo di conoscersi.

Dall’altra parte, tuttavia, è presente la fiducia vitale nella potenza di un amore che, benché perduto e talvolta incomprensibile, rischiara l’esistenza di una luce radiosa. L’importanza dell’argomento amoroso nella poesia di Ritrovato è testimoniata dal testo che dà il titolo stesso alla raccolta, La casa dei venti. In questa poesia è possibile rintracciare le caratteristiche peculiari presenti in tale tipologia di testi a tema amoroso, narrato con tono di elegiaca nostalgia per un passato felice perduto e che, nonostante il suo essere irrevocabile, necessita di continuare a perpetrare la sua potenza attraverso il ricordo. La poesia stessa si identifica pertanto come ricordo dell’amore, come estremo e titanico tentativo di riconquistare, seppur per la brevità di un istante, frammenti di perduta eternità («Tornerò da te presto, magari una mattina/ come una luce che ti abbraccia, una brezza viva»). Questo è il senso del percorso poetico ed esistenziale del poeta, quello di fissarsi definitivamente in un unico, perpetuo ricordo d’amore («Un giorno arriva il vento e cala il sole, / di tanta fatica qualcuno ricorderà l’amore», Io è il sentimento mortale).

Il contrasto tra questi due diversi atteggiamenti del poeta e dell’uomo non genera tuttavia un contrasto violento di passioni, ma si risolve e si addolcisce in un costante e quasi rassicurante tono elegiaco, in una riflessione esistenziale che, ben lungi dall’essere dura e scabra, mitiga la durezza della realtà con la dolcezza dei sentimenti. Ciò è particolarmente evidente nella poesia Noi, in cui il poeta si include tra i discepoli di Voltaire (che, come è noto, si opponeva al concetto cristiano di provvidenza) e fra gli iperborei (da intendersi probabilmente come “elitari”, in riferimento all’Anticristo di Nietzsche: «Iperborei siamo / sappiamo bene di vivere al margine»); eppure il senso nostalgico di appartenenza a un luogo o a un affetto, così come il “dubbio” che assume una sfumatura di speranza, lo spinge a tornare «qui dove non dovremmo essere / mai ritornati». Tale armonia tra questi due diversi atteggiamenti spirituali avvertibili nella raccolta è ottenuto anche attraverso un ordito fonico e semantico particolarmente equilibrato e ragionato.

Il verso tendenzialmente lungo della poesia di Ritrovato, inteso a trasporre una discorsiva trattazione del contenuto, giunge talvolta ad un andamento prosastico. L’attenzione alla musicalità del testo si palesa in un’attenta selezione stilistica e lessicale: ciò risulta evidente grazie all’efficacia delle rime, alternate e incrociate (come in Bagatelle di viaggio) oppure baciate (Per una rosa), del frequente uso di assonanze (come in Belle Dame sans mercy) e della paronomasia (es. clivia/Clizia in Per una clivia, sola/sale in L’ultima epistola). Tale attenzione lessicale si manifesta anche attraverso una combinazione sapiente di termini piani e di uso comune con vocaboli di un registro elevato o tecnico, utilizzato soprattutto in riferimento a paesaggi naturali (come nel caso del tronco «arso e divelto» della poesia proemiale della raccolta, o del «tumulo di terra slamato dalle rogge» in Canicola nella radura delle felci, degli «iperborei» in Noi). Questa moderata variazione linguistica può essere ricondotta a una precisa concezione della poesia, secondo la quale non esistono immagini o concetti che non siano degni di essere liricizzati, di essere elevati all’onore del verso: è il caso delle larve che affollano la stanza in un acre soffio di danza (Su un sonetto di Jean De sponde), il «giallo limone» dei denti (Anacreontica), il «secchio sporco di vita» (A una carrucola), «la poca carne che sfiata nel pullover» (In articulo), i «match» su cui puntano gli dèi (Sognando Omero). La poesia si assume in questo modo l’incarico di riscattare la mestizia e la banalità quotidiana, rendendo eterno l’effimero e innalzando ciò che è umile.

Particolarmente interessante è il rintracciare nella poesia di Ritrovato un costante dialogo con i suoi numi tutelari, con i poeti con cui egli intrattiene un rapporto strettissimo di ispirazione e di rielaborazione attraverso la propria originalità. Una delle presenze più rintracciabili nei suoi testi è sicuramente quella dei poeti francesi e in particolare dei simbolisti, con i quali Ritrovato condivide, oltre alla ricerca di una spiccata musicalità, l’attenzione per una poesia pura, per un io non contaminato da problematiche sociali o civili. Ciò permette al poeta di concentrarsi sull’universalità dei sentimenti, tale da pervadere ogni generazione di uomini a prescindere dalla loro provenienza storica o geografica. Molto forte sembra essere anche il segno lasciato sui testi di Ritrovato dall’opera leopardiana, evidente non solo a livello concettuale (per una visione pessimistica dell’esistenza), ma anche per un raffinato gioco di rimandi testuali. L’esempio più lampante è in Altrove, autrefois, titolo che sembra alludere alla medesima ispirazione dell’Infinito: anche in questa poesia si presenta infatti un omaggio alla famosa siepe oltre la quale si indovinano spazi sconosciuti (di là dalla siepe come da un aldilà). Un’influenza fortissima esercita inoltre l’opera di Mario Luzi, con cui Ritrovato si confronta non soltanto a livello formale (con l’utilizzo di uno stile più prosastico, simile a quello dell’ultima fase della poesia di Luzi) ma anche per i contenuti, particolarmente inclini al tema del ricordo e della descrizione naturalistica: gli elementi primigeni, nell’uno e nell’altro poeta, compartecipano dei sentimenti e delle illusioni degli uomini (come le «carovane di sagge formiche / e catacombe di talpe inquiete», il «fraterno frullare sotto il nespolo», «il sussurro insofferente di una brezza / le sgomente ombre di un bosco», in Altrove, autrefois). Molto interessante è la ricerca di significati simbolici celati dietro le numerosissime occorrenze di elementi vegetali, quali la clivia (su cui si parlerà più approfonditamente in seguito), le felci (rappresentanti forse il mistero e l’ignoto) e il tarassaco (legato probabilmente all’idea del viaggio e del distacco). Eppure, la figura che forse più di ogni altra sembra percorrere tutte le poesie di Ritrovato come un fantasma, cercando sovente di influenzare la sua scrittura in maniera aggressiva e penetrante, è quella di Montale.

Il poeta sembra lottare tra la tendenza ad assecondare la pervasiva e quasi ingombrante ispirazione montaliana e la volontà, opposta, di metterla in qualche modo a tacere, di affrancarsi da essa attraverso una rielaborazione decisa delle sue immagini e dei suoi contenuti. Se l’ispirazione del poeta è infatti esplicitata per molti altri autori (come nel caso di Anacreonte, dei simbolisti francesi, di Georg Trackl), nel caso di Montale è sempre celata dietro al gioco di riferimenti letterari e di un riuso sapiente delle sue simbologie. È il caso dei due testi più chiaramente montaliani della raccolta, A una carrucola e Per una clivia. A una carrucola si rifà ovviamente alla poesia Cigola la carrucola del pozzo e riprende l’immagine della risalita della carrucola come metafora dello scavare del poeta stesso all’interno di sé; tale riferimento è esplicitato anche attraverso l’uso di figure di suono identiche, come la rima, in questo caso interna, tra “secchio” e “vecchio” (qui arricchita anche dalla rima con “specchio”, termine adombrato, senza essere esplicitato, nel testo montaliano). Eppure questa poesia di Ritrovato si differenzia dall’illustre modello per alcune ragioni fondamentali. L’autore decide qui di non riprendere la tematica dell’amore perduto, rappresentato nel testo di Montale dall’immagine evanescente, probabilmente di una donna: la carrucola, in questo caso, non si fa carico di riportare alla luce i ricordi nostalgici dell’autore, ma sembra avere piuttosto il compito di far emergere la parte migliore del poeta, l’ingenuità originaria «sommersa» nella profondità dell’inconscio e opposta allo «sporco» e allo «storto» della vita, alla contaminazione tra la purezza dell’io e la durezza dell’esperienza (la stessa immagine del passato come sporcizia e distorsione si riscontra anche in Anacreontica, in cui il vetro è «lordo e convesso»). Tale concetto manifesta un ribaltamento delle intenzioni di Montale, così come il poeta stesso ammonisce con il verso «quello che leggi, rovescialo»: se per Montale il contenuto del secchio è destinato necessariamente a sprofondare di nuovo nell’oscurità del pozzo, per Ritrovato l’azione di tirare su la carrucola si manifesta come un gesto avvenuto e ormai irreversibile. Ciò è visto con sollievo da parte dello stesso autore, lieto di aver estratto dalla nebbia e quindi dall’oblio la parte di sé ancora inesplorata. Analogamente, la poesia Per una clivia è un omaggio alla celebre Clizia montaliana attraverso l’esplicita paronomasia del senhal usato dal grande poeta ligure («un tempo la tua clivia mi ricordava Clizia»), espediente con cui alludeva all’amata Irma Brandeis. Il testo a cui Ritrovato fa in particolare riferimento è Portami il girasole, in cui è chiara la scelta del nome di Clizia: rinviando alla ninfa innamorata del Sole che, ripudiata, si trasformò in girasole, Montale attribuiva alla sua Musa le caratteristiche di una donna angelicata che, come la Beatrice dantesca, si faceva carico di donare attraverso il suo amore il mistero della scintilla divina. Già in Montale le caratteristiche di Clizia si inserivano nella secolare tradizione della Donna-Angelo e tuttavia segnavano uno stacco da essa: l’intuizione dell’illusione dell’amore beatificante è simboleggiato dalla parziale umanizzazione dell’alterità femminile, lontana dalla divina perfezione dantesca. Clizia è sì la donna che attraverso il suo sacrificio garantisce la salvezza del poeta (come si evince nella Primavera hitleriana), eppure la sua discesa dal cielo lasciava in lei ghiaccioli sulla fronte e le penne lacerate (Ti libero la fronte dai ghiaccioli). Il testo di Ritrovato sembra voler spezzare l’incantesimo della donna idealizzata in una forma ancora più netta, assegnando all’amore perduto il simbolo non più del girasole (bisognoso di luce e, con esso, di vita), ma della clivia, una pianta che teme i raggi diretti («si affacciava timida a un balcone/ ma non troppo al sole»). La scelta della clivia, personificata attraverso verbi come «si affaccia», «annusa», «bacia», «sogna», allude pertanto a livello fonico all’ispirazione montaliana, ma allo stesso tempo esplicita l’intrinseca precarietà di un amore fin dall’inizio destinato alla fine, proprio perché non illuminato dalla medesima luce salvifica. Con tale termine, è come se il poeta volesse inserirsi nel solco della grande poesia montaliana e allo stesso tempo emanciparsi da essa. L’autore dichiara nei primi versi: «Un tempo per la tua clivia avrei scritto una poesia. / Ora non ricordo più le sue parole / tanto leggere erano da non sembrare vere».

In questo modo il poeta delinea nell’incipit una linea di demarcazione netta fra il presente e il passato, fra l’ispirazione del maestro ligure e la volontà di esprimere a fondo la propria poetica; la stessa separazione temporale allontana l’animo del poeta da una poesia d’amore mai scritta, a causa della troppa fragilità di quel sentimento. Le parole che egli avrebbe scritto sarebbero state «leggere […] da non sembrare vere»: la rima interna sottolinea il carattere piacevole eppure inconsistente dell’illusione. La donna stessa si aspetta che la clivia possa morire da un momento all’altro, senza preoccuparsi di perpetuare il sogno d’amore: è la realtà stessa che incombe sulla fantasia e con sé riporta la percezione della fugacità dell’esistenza, della morte implicita nell’idea stessa di vita («ti aspettavi che morisse / […] così la vita vuole»). Il poeta sembra ricordare come solo l’artificio poetico, quella poesia non scritta ricca di “parole non vere”, sarebbe stato in grado di sottrarsi alla tirannica prepotenza della morte, che irrompe sugli uomini e sui sentimenti con la brutale concretezza della fine. La dichiarazione della somiglianza che aveva, un tempo, la clivia della donna amata e Clizia è, come già notato in precedenza, il riconoscimento di un debito nei confronti di Montale e nello stesso tempo la volontà di ribadire come quell’amore idealizzante, capace di librarsi sopra le miserie del presente e portatore di un messaggio divino, sia probabilmente una concezione superata: il poeta ha già assunto una differente posizione nei confronti non soltanto dell’amore stesso, ma perfino dell’alterità femminile. Eppure, la presa di distanza del poeta dal suo modello non avviene attraverso fratture brusche: l’autore sembra cautamente suggerire come la ricca eredità montaliana possa forse continuare a far sentire la sua presenza, così come l’amore perduto potrebbe tornare ad essere presente. Per questo motivo, probabilmente, il poeta non dichiara la clivia morta ma afferma, con prudenza e forse addirittura speranza: “oggi non so che fine ha fatto […] e se bacia / d’un fiore rosa o giallo la tua felicità/ senza parole, o sogna un’altra occasione”.

Il poeta sembra non sapere effettivamente se la felicità della donna un tempo amata (e forse anche la propria) risieda in questa assenza di parole, nel rifiuto di quella poesia non scritta dalle parole “leggere” e forse non reali: il dubbio leopardiano che affligge l’uomo è il non sapere se la felicità stia nella fine dell’illusione o, piuttosto, nell’eternarsi di essa, nell’avere «un’altra occasione». È il fatto di non poter dire «che cosa finisce e cosa inizia» (che riecheggia ancora il Montale della Casa dei doganieri: «oggi non so chi va e chi resta») che sembra racchiudere tutta la tensione poetica ed esistenziale dell’autore: la tragica presa di coscienza della precarietà della vita umana che investe non solo la materialità, ma anche la natura dei sentimenti e addirittura la poesia stessa, soggetta a ripensamenti e a prese di posizione più o meno radicali. Eppure il pessimismo intrinseco in tale riflessione è mitigato dall’idea che qualcosa possa iniziare, sia che si tratti di un rinnovamento ciclico della natura stessa, sia che si tratti della nascita di un’esistenza nuova.

È in questo arrendersi del poeta, nella sua coraggiosa affermazione di “non sapere”, che si evidenzia l’impossibilità intellettuale ed esistenziale di pervenire al mistero dell’amore e, con esso, della vita. Si rinuncia al razionalistico desiderio di volerlo categorizzare, sia pure sotto il topos della donna angelicata: anch’esso non è che un vano tentativo di ridurre alla comprensione, attraverso una visione idealizzata e positiva, ciò che è destinato a rimanere oscuro. È questo l’approdo finale della conoscenza amorosa, efficacemente espresso dalla poesia Belle Dame sans mercy, a sua volta ispirato all’omonima ballata di John Keats. Così come il poeta inglese descrive un cavaliere soggiogato dall’amore per una donna misteriosa, che si rivela infine malefica, allo stesso modo Ritrovato rappresenta un incontro con il femminile in termini tragici, come di una impossibilità di pervenire a un’alterità incomprensibile e, proprio per questo, ostile.

Lidia Landriscina

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